Il pensiero e il cinema

Il pensiero e la pittura

Il pensiero e la letteratura

il pensiero e il teatro

“...eravamo stesi tra i rododendri sul promontorio di Howth con quel suo vestito di tweedl grigio e la paglietta  il giorno che gli feci fare la dichiarazione  sì prima gli passai in bocca quel pezzetto di biscotti all’anice  e era un anno bisestile come ora sì 16 anni fa Dio mio dopo quel bacio così lungo non avevo più fiato  sì disse che ero un fior di montagna  sì siamo tutti fiori  allora un corpo di donna  sì è stata una delle poche cose giuste che ha detto in vita sua  e il sole splende per te oggi  sì perciò mi piacque  sì perché vidi che capiva o almeno sentiva cos’è una donna  e io sapevo che me lo sarei rigirato come volevo  e gli detti quanto più piacere potevo mi chiese di dir di sì e io dapprincipio non volevo rispondere guardavo solo in giro il cielo e il mare pensavo a tante cose che lui non sapeva di Mulveyl e Mr Stanhope e Hester e papà e il vecchio capitano Groves  e i marinai che giocavano al piattello e alla cavallina come dicevano loro sul molo  e la sentinella davanti alla casa del governatore con quella cosa attorno all’elmetto bianco  povero diavolo mezzo arrostito  e le ragazze spagnole che ridevano nei loro scialli  e quei pettini alti  e le aste la mattina i Greci e gli ebrei e gli Arabi e il diavolo chi sa altro da tutte le parti d’Europa  e Duke street e il mercato del pollame  un gran pigolio davanti a Larby Sharonl  e i poveri ciuchini che inciampavano mezzi addormentati e gli uomini avvolti nei loro mantelli addormentati all’ombra sugli scalini e le grandi ruote dei carri dei tori e il vecchio castello vecchio di mill’anni  sì e quei bei Mori tutti in bianco  e turbanti come re  che ti chiedevano di metterti a sedere in quei loro buchi di botteghe  e Ronda con le vecchie finestre delle posadas  fulgidi occhi celava l’inferriata  perché il suo amante baciasse le sbarre  e le gargotte mezzo aperte la notte e le nacchere  e la notte che perdemmo il battello ad Algesiras  il sereno che faceva il suo giro con la sua lampada  e Oh quel pauroso torrente laggiù in fondo  Oh e il mare  il mare qualche volta cremisi come il fuoco  e gli splendidi tramonti  e i fichi nei giardini dell’Alameda  sì e tutte quelle stradine curiose  e le case rosa e azzurre e gialle  e i roseti e i gelsomini e i gerani e i cactus  e Gibilterra da ragazza dov’ero un Fior di montagna  sì quando mi misi la rosa nei capelli  come facevano le ragazze andaluse  o ne porterò una rossa  sì e come mi baciò sotto il muro moresco e io pensavo be’ lui ne vale un altro e poi gli chiesi con gli occhi di chiedere ancora  sì allora mi chiese se io volevo  sì dire di sì mio fior di montagna  e per prima cosa gli misi le braccia intorno  sì e me lo tirai addosso  in modo che mi potesse sentire il petto tutto profumato  sì e il suo cuore batteva come impazzito  e sì dissi  sì voglio  sì.

CINEMAPITTURATEATROLETTERATURA

L'arte deve essere incomunicabile, deve solamente superare sé stessa.

 

 

 

 


 

 

 

 

Dire di cinema, pittura, teatro, letteratura per contribuire a far crollare i sistemi che addomesticano la mente…quanto deve essere la funzione dell'arte.

 

 

 

novità rubricariflessione cinema

...a proposito di...

 

...di Guadagnino

Già detto, già fatto, già visto meglio in  Bertolucci al quale  Guadagnino cerca di riversare stima e congiunzione astrale (gli dedicò anche un documentario Bertolucci su Bertolucci ),  noiosa scrittura di formazione, più che sonnolento erotismo da grandi magazzini, virtuosismi di ripresa e inquadratura degni del peggiore artificio “sperimentale” di scuola sperimentale diretta da Ed Wood, che era invece un genio (gli hanno mai spiegato che non esistono riprese attraverso un piano solido e addurli è solo un vezzo fuori manuale, fuori arte, fuori stile) questo snob omosessuale che nasconde il sesso dietro gli asciugamani o sui sedili di un’automobile postcoito, persino peggio di Özpetek che si ripete inutilmente ma ha la scusante di essere ormai ridicolo quindi non ci si fa più caso, mentre il nostro cineasta blasonato crede di solcare melodrammi o drammi, conoscerà la differenza, di triangoli amorosi e competitività sportiva verso i pochi posti liberi dell’ Olimpo trionfale. Il racconto di questa passione a tre, carnale e sportiva, porta gli amanti a prendere decisioni contraddittorie, viscerali, pour faire qualcosa che arrechi danno, reazione, veemenza senza che  si produca filmicamente sviluppo psicologico nei protagonisti come nel più noioso determinismo odierno, invece di afferrare “persino” questa umanità, poco interessante, imperfetta e per questo affascinante e reclamarne per sé stesso autore e noi pubblico l’analisi da angolazioni, spiragli, serrature invece son tutte racchette, palle, sottintesi e sguardi. Qui e altrove  il nostro palermitano crede di essere Sirk, Fassbinder, Haynes o Almodóvar mentre veicola a mezza strada tra l’onanismo visivo, il mainstream, il cinema festivaliero trasudando arroganza sbilenca, riduzionismo discorsivo e drammatico, affermazioni retoriche e una vernice digitale che non guasta. Tra la pessima favola cannibalica di Bones and All  e i desideri adulteri della borghesia industriale di Io sono l’amore (il migliore se si può dire sottovoce), il thriller annacquato di Bigger Splash, e l’affetto omosessuale di Chiamani col tuo nome, qui in un caotico susseguirsi di flashback e flashforward una latente omosessualità diventa un rapporto eterosessuale a tre spartito tra camere, bar, corridoi, palestre e partite di mediocre tennis in un tempo indeterminato in cui uno dei rivali diventa un tennista molto famoso e l’altro sprofonda lentamente nell'oblio…più banale di così… perché la rivalità in campo si identifica con il suo equivalente dell’animacarne fino alla sfida all’O.K. Corall ma senza resa né feriti né morti, troppo audace. Nota flashback per rimanere nella struttura , la femme fatale aveva sposato il cavallo vincente ma era comunque attratta dall’eterno perdente, maschio e masochista…seconda e ultima ordinaria scontatezza e fine.

 

...della Delpero

Forse non avrei mai visto questo film, Vermiglio, dopo il leone d’argento di Venezia avendo pensato che fosse un auspiciomotivazione a un debutto italiano atipico vista anche la scarsa concorrenza (parentesi che esula dall’argomento ma al tempo avevo sperato che F.F.Coppola avesse costruito la sua Megalopolis con tutto il sapere filmico accumulato in carriera per regalarcelo in testamento ma, e ne scriverò, invece è solo un pessimo esercizio), poi la grancassa dei Golden globe mi ha fatto decidere di vedere quale capolavoro avessi perso. Ed eccoci all’ennesimo a proposito…Purtroppo la delusione è arrivata presto poco meno di quindici minuti, quanti occorrono per capire cosa mi si mostrava e pensare a cosa avesse immaginato concependo il vagheggiamento per  filmarlo. Balzati d’improvviso agli occhi del pensiero filmico l’omaggio rispettoso e lirico, rigoroso, fuori della storia de L’albero degli zoccoli; l’antropologia mistica, corporale, metafisica, sacra, rituale  di Piccolo corpo, eccelso debutto di cui ho scritto in un mio precedente librola rigida struttura sociale dedita alla perpetuazione dei valori cristiani (i bambini) de Il nastro bianco, fino agli irrilevanti dettagli bressoniani, ma nulla lontanamente accorpa queste sembianze a quelle idee, inquadrature, cinema. Dal risveglio dell’inizio alla scoperta frantumata di personaggi e della comunità montana appiccicata con lo sputo in un arco storico ancora conflittuale di rifugiati e disertori. Fratture di relazioni e condizioni senza nessi narrativi, comunicativi, esplicativi in un farfugliare solipsistico di esigenze represse e contaminate. Dov’è il “corpo” contadino tanto caro a Pasolini “L'universo contadino (cui appartengono le culture sottoproletarie urbane, e, appunto fino a pochi anni fa, quelle delle minoranze operaie - ché erano vere e proprie minoranze, come in Russia nel '17) è un universo transnazionale: che addirittura non rico­nosce le nazioni. Esso è l'avanzo di una civiltà prece­dente (o di un cumulo di civiltà precedenti tutte molto analoghe fra loro), e la classe dominante (nazionalista) modellava tale avanzo secondo i propri interessi e i pro­pri fini politici (per un lucano - penso a De Martino - la nazione a lui estranea, è stato prima il Regno Borbo­nico, poi l'Italia piemontese, poi l'Italia fascista, poi l'Italia attuale: senza soluzione di continuità). È questo illimitato mondo contadino pre-nazionale e pre-industriale, sopravvissuto fino a solo pochi anni fa, che io rimpiango (non per nulla dimoro il più a lungo possibile, nei paesi del Terzo Mondo, dove esso soprav­vive ancora, benché il Terzo Mondo stia anch'esso en­trando nell'orbita del cosiddetto Sviluppo). Gli uomini di questo universo non vivevano un'età dell'oro, come non erano coinvolti, se non formalmente con l'Italietta. Essi vivevano quella che Chilanti ha chia­mato l'età del pane. Erano cioè consumatori di beni estremamente necessari. Ed era questo, forse, che ren­deva estremamente necessaria la loro povera e precaria vita. Mentre è chiaro che i beni superflui rendono su­perflua la vita (tanto per essere estremamente elementa­ri, e concludere con questo argomento), farebbe bene a tutti di tanto in tanto rileggere l’unico intellettuale italiano del novecento o a Olmi e le sue famiglie contadine bergamasche che condividono la cascina o al piccolo corpo morto che Agata carica sulle spalle per il viaggio dal mare alle vette innevate della Samani? Qui si munge una mucca, ci si confessa, si festeggia un evento, si partorisce, si prega, si copula, si partorisce, si distribuisce il latte, si va a scuola, si ascolta Chopin, si guardano foto licenziose, tutto incorniciato in siparietti inquadrati dalla MDP con pulizia estrema, senza irregolarità senza acromatismi, leziosamente, senza niente di vitale che irrori sangue e nervi in corpi inesistenti…tutto  lindo, bianco. Persino la sottomissione, il patriarcato, l’oppressione, la paura, la superstizione, il sessismo, i dogmi, le pratiche educative, le punizioni sono concetti fluidi che non si vomitano ma elargiscono compassionevolmente nella ritualità quotidiana così poco tossica, solo margine ad un margine che è il territorio perfettamente naturale. Vermiglio vorrebbe essere persino nichilista senza saper esserlo e il trucco con la cenere, le sigarette o l’omosessualità nascosta non sono rivolte, tentativi di fughe, sogni romantici,  ma solo appendici, varianti di uno spartito sussurrato, sopra le pareti incrostate…grave…larghissimo.

 

.. dei fratelli D'Innocenzo I

…un altro a proposito dopo Sorrentino, non me ne voglia il cinema italiano ma più vedo (sempre pochissimo, con il contagocce, di solito quando fan chiasso d’applausi a destra e a manca, là dove ci vorrebbero pernacchia eduardiane), più mi sconcerto di un fallimento dopo l’altro,  ho recuperato quanto già scritto in merito a C’è ancora domani ma non pubblicato, e qualcos’altro, per rimanere in un ambito biennale, e  ho creato questa rubrica sugli “a proposito”. Dopo un debutto garroniano molto scopiazzato e imberbe i due fratelli borgatarifilosofimonocefali (quando parlano scompongono i concetti e le frasi divindendoseli per l’uditorio, insomma non proprio come i Dardenne o i Taviani) con Favolacce avevano almeno lasciato una qualche bava di autonomia inventiva e prolassi filmica pur sempre forzatamente sottolineata, come se si dovesse credere che il mondo va come loro mostrano; poi una buona sceneggiatura per Wilma Labate e il suo La ragazza ha volato che mi piacque e ne scrissi e poi il baratro con le macerie di America Latina, anch’esso virgolettato in una riflessione. Allora ho atteso di vedere questa miniserie Dostoevskij che si annunciava interessante per plot, protagonista emarginato e disturbante e bravo come Timi e un titolo atipicamenteletterario che supponevo più da “grande inquisitore” karamazoviano che squarcio di dettami psicopatologici che si sarebbe potuto titolare Celine, Cioran o Heidegger per quanto scrive il killer del mal di vivere e della morte. In una borgo, contrada, campagna, periferia extraurbana fosca, oscura, tenebrosa, tetra, ma ricercata e voluta senza alcuno scopo se non velleitaria exposure, si aggira un commissario di polizia Enzo Vitello abbattuto, afflitto, affranto, angustiato, demoralizzato, sconfortato, sconsolato, sgomento, psicotico e “additionfarmalogico” , ossessionato dalla ricerca del serial killer "Dostoevskij" che lascia lettere accanto ai corpi delle sue vittime in cui descrive i loro ultimi momenti quando la vita gli viene tolta dal suo gesto. Sedotto nichilisticamente e guidato dai suoi demoni, Vitello intraprende una corrispondenza con l’assassino lasciando anch’egli note, frasi, brevi lettere sui luoghi dei delitti. Questo scambio epistolare inabissa il poliziotto negli angoli oscuri e odiati della sua anima che lo costringe a confrontarsi con un segreto del suo passato che lo ha portato ad abbandonare da piccola sua figlia Ambra, anch’ella lacerata da insondabili precipizi di sesso, violenza e droga. Questa la narrazione lineare entro la quale si sarebbe potuto costruire un “true detective” a scatole, piani, sbalzi centripeti e centrifughi avendo materiale umano conscio e inconscio duttile quanto farraginoso e invece si lascia  che  dialoghi retorici persino brechtiani, il registro attoriale di Timi che si costringe a passare da indagante a esecutore    a surrogato, le sequenze perseguitate da una MDP  immersa in dettagli né poetici  né introspettivi, in  spazi metafisici di  luoghi che vorrebbero essere elementi narrativi riflettenti ai quali si contrappongono vite vendute, azioni dolenti, catarsi terrificanti ma senza spessore solo gioco degli specchi per irrorare di tragedia una farsa perché tale è quanto si subisce senza motivo, solamente ben calcolato, il degrado territoriale al fianco di quello esistenziale, banale, ovvio, predeterminato a tavolino,  per il modo in cui è detto non concettualmente come farebbe un vero regista…e sono anche due. “Scrivimi ancora, ti capisco e ti leggo” il demone Vitello insegue il labirinto del fauno che non c’è e lo invita a comparire alla sua tavola per banchettare in nome dei presidi autoritari, le istituzioni totali, gli oltraggi genitoriali, le arroganze professorali, infantilmente infantili da dove nascono i malanni (altra banalità se la si suppone scontata), allora perché non un borghese illuminato che si è svestito degli abiti dabbene o come dicevo grande inquisitore degli uomini e di dio e non in nome di Lui…anche qui altri registi, altri scritti, altre teste. Squallore aberrante, sacrificio anomalo, torture, segreti impronunciabili e pasticche dopo pasticche dopo quelle iniziali vomitate da Vitello per rimandare la morte che può attendere visto che c’è da togliersi la pelle di serpente e diventare altro, stupro dopo stupro (perché l’unico si ripete ad una vasta platea, sempre che tale sia). Libertà autoriale ricoperta di “sovrastrutture” poco etiche, meno che meno estetiche, per niente poetiche e tutt’altro che filmiche in cui si cimentano il bravo Filippo Timi e la giovane in ruolo Carlotta Gamba in questa lunga deriva verso gli abissi del niente “perché l’essere è e non può non essere”. Come per i sigari di Sorrentino ai fratelli di Tor Bella Monaca consiglio, prima di fare un altro film come questo, una cura intensiva delle opere di Kiyoshi Kurosawa, Seijun Suzuki e Béla Tarr per schiarirsi le idee su cosa siano la vita, la morte, i demoni e il dolore...comunque salutare sarebbe in ogni caso prendere visione e studiare il cinema e non solo i film.

 

 

 

 

 

 

... di Sorrentino I

Avrebbe voluto innescare una passeggiata napoletana attraverso l'amore, la morte, la carne e la bellezza fino all'esasperazione invece non è abbagliante ma pasticciato, non travolgente ma irritante, noioso, ripetitivo, avvelenato, solipsistico, egocentrico. Senza tono, senza ritmo, senza audacia, senza gioia, senza virulenza, senza niente. Avrebbe voluto scompaginare, buttare a terra l’impalcatura invece ricade e s’infrange come un guerriero di terracotta dentro una cornice sempre artefatta, posticcia, da nomenclatura e senza vincitori né vinti. Apatica carrellata dentro le viscere che una ninfa non plebea si mostra ma non vive e ci esemplifica in asettiche retoriche liturgie dal coito di legame alla masturbazione sacralmiracolosa per concludersi in donna matura che ritorna per sorridere alla fantasmagoria di un carro sportivo fatto di gesta non achee ma calcistiche. Un immaginario decadente, grottesco, kitsch che  nemmeno lontanamente provoca effetti desiderati con niente da dire se non enunciare proclamare nascosto dietro la tenda dei conati inconsistenti. Parthenope personaggioattricesimulacrovestale è incolore insapore indolore come il film, il barocco diventa rococò e il rococò chirurgia plastica, senza oro, senza bianco, senza curve e conchiglie solo lordo ego spropositato che non conosce né sé stesso né la sua città né la dimora in cui riposa in attesa di morire. Non vibra per gli insulti di una Sophia di passaggio né per il dissacratorio miracolo svanito né per un comandante spregevole come il suo tempo di arrembaggio né per l’amore fraterno che la regia non ha neppure il coraggio di svolgere in piena luce incestuosa  né per un burattino scrittore omosessuale profetico che naviga nella fragilità di un’artevita che non conosce che non capisce per la quale piange a comando né l’antropologia salva tutto che acconsente la mostruosità “acqua e sale” ( banalità per il mare”) per giustificare il vedere. Tutti piangono, fumano, ballano, desiderano ma non sanno perché. Operistica da D'Origlia-Palmi, lode alla genialità, che qui manca nella narrazione che si snoda attraverso siparietti sconnessi, sghembi, ciascuno abitato di personaggi atonici e soliloqui o dialoghi criptici. La sequenza del funerale del fratello corrompe persino il grande De Sica e il suo funerale del L’oro di Napoli interrompendolo con il colera e la sua macchina ronconianacronenberghiana che dovrebbe purificare la città impura che invece contiene in essere già la  forma e l'oggetto di essa e non necessita essere mondata. Dialoghi sfilettati di qua e di là da un testo o un altro appiccicati alla colla moschicida che vincola ma non uccide, parole vane, insalubri, inutili, motti di spirito di cui Karl Kraus riderebbe  per l’insipienza avendo detto “ben venga il caos ,poiché l’ordine non ha funzionato” ma tra queste sequenze né caos né ordine governano l’idea, quale idea? Il mito e la modernità? Il maschile e il femminile traguardati da un cannocchiale capovolto? L’amore, perdita, senso di colpa e redenzione? L’essenza di una città mitologica e per questo ferina e materna? Il valore del persistente interrogativo "cos'è l'antropologia?" ? Si potrebbero suggerire al regista molte strade che avrebbe potuto perseguire per cantare o piangere la sua città ma sarebbero comunque risultate errate perché Napoli non si può definire, delimitare, limitare, circoscrivere, risolvere, comporre, sistemare, acconciare, incatenare, vivisezionare, fissare, precisare…con alcun canone filosofico, storico o immaginifico perché riavvolgerebbe il nastro e rifarebbe un altro percorso contraddittorio, discrasico ancor di più esaltante violento esagerato con una partogenesi, questa sì sacrale. Per non dire dell’alienazione grafica e cromatica di chi non sa cosa apporre alla parete della confusionaria visione della pittura della città, che puoi anche violentare surrealisticamente ma dovresti avere la cognizione del dolore di Thomas Jones. Parthenope emerge come una fantasia psicotica della femminilità, filtrata attraverso uno sguardo maschile che oscilla tra un servizio fotografico di moda e un'esumazione, già ripetuta fallimentarmente, della visionaria poetica felliniana e barcolla dentro l’estetica kitschiana. Ecco il caos senza stelle danzanti è il cinema di questo sedicente pretenzioso esibizionista che farebbe bene a tagliar corto e fumare qualche sigaro in più per passare il tempo e pensar meglio alla giovinezzabellezzaintelligenza che lo perseguitano (tutti i suoi film). Il bello sospende, annienta, disarma e  il desiderio  intimidisce, addirittura proibisce...ma il suo oggettofilm è scoperto, senza veli, sarebbe dovuto rimanere nascosto come la città che si mostra veramente, come rivelazione sapendo narrarla come se fosse Antigone e la morte.

 

... di Sorrentino II

“Fellini val bene una messa” parafrasando Enrico di Navarra il quale si fece cattolico per il regno, ma Sorrentino perché oltre ad omaggiare un suo maestro pensa di esserlo? Dove è lo scopo che giustifica la messa? Nessuno crederà, lo spero ma non ci credo, che bastano poche oniriche-sessuali-visioni di un caravanserraglio (qualcuna brutta, il pranzo, come in  un film brutto della Wertmuller) a ricreare l’humus del grande riminese. Così come mi sono ritrovato contraddetto da quanto avevo scritto, sempre in quell’appunto su Venezia in cui ne ho dette molte confermate, (“…leone d’argento gran premio della giuria a Paolo Sorrentino per “E’ stata la mano di Dio”, non amo Sorrentino precipitosamente qualsiasi fotogramma selezioni con cura e conoscenza tecnica ma credo che questa semi-verità napoletana sul dolore e l’immaginazione terapeutica sia onesta quindi probabilmente un buon film…”) perché non vi è nulla di intimo, riservato, pudico rispetto del dolore, silente o gridato che sia, invece neppure quello è vero e la terapia al proprio contrasto e superamento è forzatamente posticcia se deve passare per incitamenti di Capuano (capitolo a parte successivamente); per i vaneggiamenti di calcio deista-comunista di Carpentieri, ma Eupalla come diceva Brera risiede da un’altra parte, sul campo, nei piedi, nella palla di chi poeteggia con questi elementi e non veicola benedizioni e riguardi agli umani conflitti; o per l’iniziazione sessuale prima vagheggiata in famiglia e poi donata da un’anziana duchessa anche se una “super fessa” come la definiva il marito defunto. Cominciamo dall’inizio. Un incipit aereo sulla bellezza del golfo con una rolls-royce che si muove sul lungomare potrebbe essere uno spot turistico veicolato da un tocco glamour che approda in un incontro alla fermata dell’autobus, il traffico bloccato, tra il santo Gennaro che vi viaggia e la procace zia con i capezzoli già turgidi in un abito bianco (8 ½ docet ,lì un regista in crisi esistenziale e un film da fare, qui un regista in nuce che i film vorrebbe farli ma non lo sa ancora, lì e qui il bianco di quella figura femminile musa e coscienza del protagonista) che si lascia ammaliare dalla conoscenza della propria pena per andare a fare la conoscenza in palazzo vanvitelliano (altro tema successivo su Napoli che non è solo questo, insieme ad altro mostrato, ma solo anche questo) del “munaciello”, monaco bambino di natura giovevole o dannosa, che se baciato sul capo  le consentirà di avere figli, aiutata anche da una mano del santo sul prosperoso culo e duecento euro nella borsa-mercimonio folcroristico- (Casanova docet). Con il rientro a casa della zia, picchiata dal marito perché pensa che si prostituisca la “gran puttana” , conosciamo la famiglia e il protagonista Fabietto a lei imparentati. Questa l’apertura del sipario che qualcuno potrebbe dichiarare “stravagante” tra influenze sovrapposte di religione, superstizione, sensualità, in collisione tra assurdo e domestico, magico e mondano, invece credo quanto ho detto frettolosa fotocopia del già detto molto meglio da altri. Ne segue una famiglia molto allargata in un pranzo all’aperto nella casa al mare, archetipo di molte commedie italiane ma qui il “logos”, pensiero e parola,  sono entrambi inutilmente triviali ma fondamentalmente confusionari perché tra vagheggiamenti, silenzi, giudizi, scherzi e giochi circensi ciascuno emana tossicità credendosi migliore dell’altro e quando la compagnia migra sulla barca il fulcro diventa la nudità della zia che alimenta fantasie e avance che ciascuno maschio vorrebbe affrontare, che le donne non potendo vorrebbero imitare, ma che tutti stanno a guardare. Perché? La zia Patrizia sarà il veicolo della crescita formativa di questo giovane Holden che già mostrando il seno e il sangue precedentemente al nipote ha determinato il suo impulso e desiderio, allora questa performance pubblica credo sia solo il piacere di comporre una tessera del mosaico immersivo che esula da una narrativa filmica sia tradizionale che sperimentale (come altri assolo sequenza ingiustificabili nel senso di inutili riempitivi). Poi la figura evocata arriva in prima persona con voce off che scarta al provino la convenzionale faccia del fratello di Fabietto perché come quella di “un cameriere di Anacapri” (battuta che con grande sforzo non riesco a capire nella sua bruttezza) che lo accompagna tra figuri più macchiette che persone, anche esse lontane da i volti felliniani, e che poi sentenzia “Il cinema è una distrazione, la realtà è di second’ordine”, questa non credo che Fellini l’abbia mai pronunciata e se mi sbagliassi la considererei alla stregua della valutazione che ne traggo come battuta della sceneggiatura, cioè stupida, superficiale, fuorviante, sommaria, irrispettosa verso il cinema e la realtà…ma in fondo vi è sempre traccia  nei suoi film.( Un giorno, in occasione di un festival di alcuni anni fa, lessi che il regista al quale Sorrentino si sentiva molto vicino era l’iraniano Farhadi. Mi chiesi allora cosa avessero a che spartire, oggi aggiungo con sicurezza, se la battuta è sua, che non ha mai visto un film dell’iraniano). E poi giunge anche la seconda figura evocata che sicuramente ha reso orgogliosamente unici, oltre alla intrinseca unicità genetica partenopea, i napoletani con le sue imprese calcistiche- unica cosa che condivido l’asserzione del regista messa in epigrafe “il più grande calciatore mai esistito”- ma come già detto precedentemente ha poco a vedere con la tragica vicenda personale che sarebbe potuta svolgersi allo stesso modo se Fabietto fosse stato occupato con una ragazza, se più intraprendente, o una partita di calcetto con gli amici perché altri iddìi destinali presiedono a questo. E qui con la morte il film cambia registro rendendo la forma della crescita adolescenziale diversa dal prima della frattura evocando  i ricordi indelebili della giovinezza in un atto amorevole che lenisca il dolore. Ma anche in questo luogo filmico diverso si ritrovano crepe che addomesticano l’intera opera ad una soluzione amorfa. Potere crudo e lacerante, in questo caso gridato come una prece antica, nella scena in ospedale dove sono i genitori morti o il cortile dei Salesiani (conosco personalmente per avervi giocato al calcio da ragazzo, anche io vomerese come lui) dove si mescolano partite, giocatori, in una pletora di palloni che si impastano e uniche porte in cui si segna, perfetta metafora napoletana, sono discreti attestati che l’estensione sarebbe potuta cambiare invece non accade. Attratto dalle meraviglie del cinema, ( nessun segnale della sua vita precedente farebbe supporlo) prima assistendo alle riprese, poi al cinema e infine incontrando personalmente il regista Capuano che diventa un improbabile e frettoloso mentore che lo incoraggia a superare incertezze, paure per trovare una voce creativa. Perché Capuano ( amicizia legata ad una co-sceneggiatura di un suo film “Polvere di Napoli”) visto che rimane agli antipodi del cinema di Sorrentino e che inveisce contro un’attrice di uno spettacolo off con le parole che andrebbero a pennello per parte del suo film, o per sottolineare che poi ci si libera dei maestri e si prosegue sulla propria strada anche se molto diversa, o che il suggerimento “Non ti disunire” si riferisca a non abbandonare quanto già possiedi nella tua città e all’elaborazione del lutto, ma non serviva una passeggiata notturna sul lungomare e poi nella piscina mirabilis di Bacoli, la fascinazione estetica contro il verbo. Anche l’amicizia di Fabietto con un contrabbandiere in un viaggio notturno in mare, nella piazzetta vuota di Capri con fantasmi da cattivo museo delle cere, o dopo in una visita in carcere dove è relegato, servono a comprendere questa formazione sui generis, direi in stato confusionale. Il prefinale a Stromboli, luogo di storia cinematografica rosselliniana altro grande autore poeticamente lontano, in una metafora visiva tra mare, fuoco, nero e nudità vergognosa, la famiglia ormai è decomposta, il fratello non vuole fare l’attore, la sorella ha lasciato il bagno quindi ancora più in balìa del niente, la zia nell’ultimo saluto dietro le sbarre del manicomio, per salire sul treno che lo porterà a Roma. Ancora un attimo per i titoli di coda perché in una stazione di transito dall’altra parte dei binari c’è il munaciello, nel quale ha sempre creduto rispetto all’episodio legato alla zia, che lo saluta, e anche senza bacio sarà il viatico alle sue scelte di pensiero cinematografico a mezz’aria tra superstizione e sacralità che in questo film non riescono a battere la protagonista comunque del film anche se mal curata, con alcuna punizione fatata, Napoli che rimane unica, imprendibile, oltre, maggiore di qualsiasi nostoi non veramente desiderato che vacilla sull’orlo della nostalgia, aneddotica, iperbole, autoindulgenza e narcisismo. “Napoli, che amo è quella bassa ed eccentrica, senz’aura eppure bellissima, fatta di tufo, di muri sabbiosi, di case assolate e silenti, dove le discrasie del tessuto abitato riconducono all’idea di bellezza perenne: intonaci stinti, gl’incastri dei muri che toccano il cielo; una bellezza cifrata che la trascende. Per me la bellezza di Napoli non la si guardava o fotografava, si condivideva”.

 

...della Cortellesi

 

Una breve premessa. Che il cinema italiano fosse inetto, superficiale, ovvio, qualunquista, carta carbone di sé stesso per chi si ripropone e chi si presenta alla ribalta (qualche eccezione), imbroglione, codardo, inutile, lo ripeto da anni fatto salvo per quelle tre menti pensanti e artisti che cito sempre ( Bellocchio, Garrone e qualche volta Moretti) ma che gli italiani fossero così sprovvisti di qualsiasi capacità critica, non dico analisi, per affollare le sale, rendere questo “C’è anche domani” record di incassi scavalcando un altro pessimo film “La vita è bella” di Benigni non riesco a giustificarlo. Una percentuale di quel pubblico ha visto film di De Sica, Rossellini, Visconti, Fellini, Antonioni, Matarazzo, Pasolini, Bertolucci, Petri, Ferreri, Comencini, Monicelli, e non cito grande cinema americano o europeo di quegli anni, né pretendo che conosca o segua il cinema contemporaneo indipendente coreano o mongolo che sia, ma come fa quel pubblico almeno a non indignarsi dopo essere uscito dalla caverna?

Questo film è “pulito”, aggettivandolo così nel senso più losco del termine, quello che la sporcizia e la trascuratezza della vita la sminuisce in un rammendo o in un grembiule, che non ricorda di essere stata fascista, la sferza con un livido e la trasforma in un’opera dei pupi, la circuisce in un criterio di giudizio morale con colpe e equivocità fasulle, finte, passate in candeggina, sottomettendola alle regole e le sottrazioni obbligatorie. Come traduce la Cortellesi - che nessun partito preso o disdicevole valutazione attoriale della precedente carriera suggerisce la mia analisi - questa storia di dopoguerra romano della borgata Testaccio in cui vive una  famiglia sgangherata, povera, patriarcale e ancora fascista se non aggrappandosi a due capisaldi italici; la commedia all’italiana e il neorealismo in un quasi obbligatorio formato 4:3 e bianco e nero rilucente che infastidisce (più negli interni che negli esterni anche qui si intrufola il pulito) ma trainando il carretto filmico sulla sdrucciolevole strada acciottolata per un  sottotono della condizione femminile e della emancipazione sociale. E vi aggiunge anche sperimentando (non so cosa) valenze narrative di odore musicale e tristezza evocativa che non si bilancia se non per contrasto stridente alla sdrammatizzazione, pensando di evitare il didascalismo fine a sé stesso, scolastico, con siparietti scontati a volte e altri incomprensibili, il soldato americano obbligatoriamente nero e bombarolo. E strada facendo tra il matrimonio sfumato della figlia, la morte del suocero e l’antico amore, tutto semplicemente e essenzialmente trattenimento sorretto da una struttura narrativa circoncisa, rivela il suo ultimo salto nel vuoto, lo svelamento tanto supportato dalla costruzione si rivela inganno, tradimento dello svelamento, non la ribellione verso la realtà patriarcale e polverosa, il rifacimento della vita, la passione, la fuga d’amore ma solo il diritto al voto…un banale, comodo binario di film civile, democratico, pedagogico, affossando definitivamente e chiudendo senza libertà e coraggio ma solo banalissima mortificata vis repubblicana che ancor oggi non ha guadagnato galloni nei confronti delle donne né lo farà a breve e sempre accerchiati dai fascisti…

 

 

...dei fratelli D'Innocenzo II

 

Dopo il garroniano “La terra dell’abbastanza”, il circolare grottesco periferico di “Favolacce”, la bella sceneggiatura di cui ho detto de “La ragazza ha volato”, approdano in questa landa paludosa, western, inventata e marginale “America Latina” (terra di mezzo tra bonifica, residui tossici di centrali nucleari, architettura modernista-fascista e arida distesa di confine rurale-urbano un po’ messicana)…forse per questo America aggiuntiva? E qui vorrebbero viaggiare dentro la notte mentale di un uomo, qualsiasi, dentista con moglie e due figlie, tutte solari, bionde, diafane, cinte di bianco-cerulo come gli angeli (buon sospetto da porsi) stimato professionista che vive isolato dal mondo civile e urbano  proprio in una casa simile a quelle forme razionaliste, anche qui un po’ moderniste un po’ provinciali , insomma mai definite, con una squallida piscina, una rampa velleitaria un po’ malapartiana-caprese un po’ rampa di un garage, azzurra e qualche cane. Calmo, tranquillo, sensibile, cortese, onesto, che frequenta solo due amici nelle poche ore che trascorre lontano dalla famiglia, si incontrano in auto o al bar di uno di loro. Poi l'imprevisto irrompe in questa stagione imperturbabile e serena: un giorno come un altro Massimo scende in cantina e l'assurdo si impossessa della sua vita. Una bambina legata ad un palo, imbavagliata, sanguinante, contornata da un cumulo di residui di cibo, scatole, bottiglie…evidentemente da tempo imprigionata. Uno scatto repentino di paura, sogno, veglia, invenzione, poi si avvicina le toglie la benda dalla bocca subendo un morso, poi le grida, poi la fa bere…e poi ritorna alla sua vita normale, dietro ad una finestra della camera da letto si riflette doppiandosi con i riverberi e la sagoma della moglie appena svegliatasi con la quale conversa, primo movimento di macchina un po’ estetico e un po’ estetico. Questo nostro Massimo, nessuno, qualcuno che fa? Niente. Riprende la sua vita solo poco alterata e dubbiosa, cerca di capire chi avrebbe potuto portarla nella sua casa, perché, quando, come, fa domande, spia gli amici, senza averne risposte. Allora beve, prende pasticche e fa visite alla bambina nel sottoscala avvisando la famiglia che ha chiusa a chiave la porta per una perdita che l’idraulico quanto prima riparerà. A questo punto vorrei aprire una parentesi squisitamente formale e stilistica perché la narrazione fa acqua da tutte le parti e le incongruenze sono molteplici perché non si comprenda dove andremo a sbattere malconci dell’uso mediocre del cinema alla fine della storia…meno male breve. Che sia un viaggio allucinogeno o patologico in entrambi i casi è fuori sincronia con gli equilibrismi che i fratelli e un bravo direttore della fotografia inventano con dissolvenze, sovrapposizioni, sfocature, angoli visuali contorti ed eccentrici, dettagli dentro i dettagli, perché anche questi sono un po’ niente e un po’ niente. Perché siamo noi spettatori a subirne la contorsione visiva, la eventuale stupefacente mirabilia dei movimenti della MDP, mentre al massimo potrebbero essere le “soggettive” reali o vagheggiate del nostro nessuno alle prese con il suo cattivo viaggio dentro la mente. Dicevo delle incongruenze palesi che ti avvisano subito che non ci sono altri personaggi, solo in un bunker atomico scavato sotto una grande montagna non arriverebbero grida, chiavi inglesi sbattute sui tubi, acqua che getta furiosamente da una conduttura, lamenti e assenze del nostro nessuno dalla vita famigliare. Un nesso di follia genetica potrebbe lasciar traccia nell’unica scena, quanto meno realistica, con il padre del protagonista, che lo insulta come un piagnucoloso senza spina dorsale sin da bambino, che vive in una stanza bagnata da una luce gialla e malaticcia, e il colloquio pone più domande di quante  risposte dia, questo genitore anziano non si cura, inveisce e gli chiede sempre soldi quando lui non gliene lasci per senso di colpa. La regia fa di tutto per innestare dubbi, imprevedibilità, in un’atmosfera disorientata e onirica del protagonista accudito dalle ancelle di casa, suonando il piano che lo commuove o festeggiandolo per il compleanno. Trucchi narrativi ed estetici, dicevo, addirittura offensivi per lo spettatore che a quest’ora ha già capito senza più domande da porsi. Nonostante bisogna rimarcare il valoroso tentativo di Elio Germano di esserci dentro, volere, con una performance viscerale esaudire le volontà registiche, sottostando alle increspature e tante crepe del personaggio, persino un passaggio quando sale madido dalle scale della cantina inquadrato in campo medio, oscurato, rossastro e oro, in controluce come la sagoma ripiegata di Nosferatu per poi  uscire dalla porta finestra verso il giardino e porre la testa rasata, in primo piano laterale, come quella di novello Kurtz ad un getto d’acqua nel verde marcio della piscina come se invece del taglio subisse l’elettroshock. L’uso dei colori primari è integrato in una tavolozza di stile che è propria degli autori, come nei precedenti film; risolvono l'atmosfera con un lavoro di ripresa “elegantemente” nervoso e un'illuminazione che sembra avere una vita propria; ma la crisi di un maschio che volevano raccontare attraverso un thriller psicologico è sfumata per supponenza e l’ambiguità tra stile e contenuti dove l’immersività dentro l’uomo, solo, indifeso si perde nei nervi facciali e il femminile che salva è troppo funereo e inutile come i fantasmi che continuano ad accompagnarlo anche in una cella. 

 

 

 

 

 

I film che ho scelto, in questo scorcio di assenza, e ritenuti lodevoli per le mie riflessioni.

The zone of interest di Jonathan Glazen

Anatomie d’une chute di Justine Triet

Cerrar los ojos di Victor Erice

Fallen leaves di Aki Kaurismaki

Poor things di Yorgos Lanthimos

Roter Himmel di Christian Petzold

Sparta di Ulrich Seidl

Trenque Lauquen di Laura Citarella

Totem di Lila Avilés

About dry grasses di Nuri Bilge Ceylan

Blackbird blackbird blackberry di Elene Naveriani

Passage di Ira Sachs

Una sterminata domenica di Alain Parroni

(un italiano, rarissimo nelle mie preferenze, che farà strada se allungherà il respiro del campo visivo e migliorerà la punteggiatura)

My first film di Zia Anger

 

In secondo piano

La zona d’interesse di Jonthan Glazer

 

Nazione UK-Polonia Anno 2023 Genere Drammatico Durata 105' Interpreti Sandra Hüller, Christian Friedel, Johann Karthaus, Luis Noah Witte, Nele Ahrensmeier, Lili Falk Sceneggiatura Jonathan Glazer, Martin Amis autore romanzo Fotografia Lukasz Zal Montaggio Paul Watts Costume Malgorzata Karpiuk Musica Mica Levi

 

Un muro grigio, spinato, oltre dei caseggiati rosso mattone, ciminiere, rumori, prolungati silenzi, abbaiare di cani, treni, sirene, pianti, grida, al di qua di esso un giardino, un orto, una piscina, dei bambini, la servitù, il quotidiano, l’ovvio, la famiglia Höss. Al di là l’orrore, al di qua il vuoto, il niente, il banale, l’assenza emotiva che si mostra ai piedi dell’abisso. Il film di Glazer compone i fotogrammi e le sequenze di ciò che accade senza punteggiatura, e scompone senza identificazione, soluzione, apre e non chiude quasi mai il senso di un dialogo, di uno sguardo, di un’azione, decostruisce concettualmente in modo formalmente radicale, terrificante, un film tanto audace che non si potrà cimentare nessun altro con la Shoah, dopo questa agghiacciante rappresentazione dell’argomento. Lontano dalla commozione umanistica di "Schindler's List" così come dal virtuosismo e l'esplicitezza di "Son of Saul", e ancor di più da capolavori come “Nuit et Brouillard” e la sua gelida emozione e atrocità o “La passeggera” con la straziante bellezza della memoria e della colpa. Questo è altro è altrove tra angoli acuti e lontananze, senza trama, senza melodramma, senza alcuna salvezza ma nella deteriore complicità umana che nella rappresentazione del nulla diventa ancora più devastante perché ciò che non si vede ma si ascolta o intuisce occupa totalmente lo spazio mentale di chi guarda, un esercizio indimenticabile sull'assenza, su ciò che non vediamo e che decidiamo di non vedere. L’approccio antropologico di Glazer e la dissezione che compie sulla famiglia e i gangli di connessione di accoliti e parenti è stupefacente per divergenze palesi e convergenze simulate che rendono ancor di più scabrosa la convivenza che si autorappresenta nel nulla dell’insignificanza. Un amalgama di insensibilità, routine burocratica, apatia e pretesa di efficienza sempre sotto quella vorace ragione strumentale del compito da portare a compimento. La proposta visiva è radicale dall’uso del nitore digitale, alla musica, al suono, ai colori, allo squarcio in  negativo, sono tutti diaframmi di emotività contemplativa frapposta al tutto, come un quadro di Rothko sul senso tragico dell’esistenza, a cui si sostituisce la MDP per essere attraversata dalla luce, da figure, da fiori e colori che tendono a enfatizzare il contrasto permanente tra l'idilliaca bolla famigliare del nulla e l’altro. Sotto la pelle entra la sensazione di portarsi addosso quanto altri stanno facendo e di cui ci si accorge se resti umani sono nel fiume in cui si nuota o le ciminiere rosso fuoco di notte ti consentono un attimo di lucidità per fuggire dal seme purulento che sta per occuparti il cervello. L'orrore è inquietante e mette in pericolo l’anima e il corpo, proprio il corpo nel finale emblematico si traduce in un conato che vorrebbe erompere rifiutandosi di essere partecipe ma non vi riesce e rimarranno, sul buio di un’ultima rampa da percorrere, solo le teche che inservienti puliscono perché non si perda la visione di un solo frammento di protesi e di scarpe. Dacché voglio essere chiaro in questa mia riflessione aggiungo in chiusa che questo film senza emotività ma che si deve guardare esclusivamente formalmente e emotivamente senza sovrastrutture interpretative di analisi rigorosamente filmica, è per questo motivo impareggiabile, ineguagliabile, inimitabile aggettivando in termini rafforzativi dei sinonimi, che non esistono, come fa Glazer scivolando dentro il niente sempre più nulla di un buio incisivamente tenebra oscura.
Nota a margine. La musica iniziale su nero di tre minuti non sono forni crematori o uno specifico connotato allo sterminio ma lo stridore dell’inconscio individuale e collettivo che serviva al regista per staccare l’apertura in una scena en plein air espressionista che ponesse allo sguardo la domanda immediata e abbagliante del dove, come, perché che non darà per tutto il film.

 

 
































Guardando il cinema dire di cinema a chi vorrebbe sapere di cinema a chi troverà il cinema che potrebbe fargli amare il cinema che produce pensiero, crea concetti, filosofia, bellezza...















Cerrar los ojos di Victor Erice

 

Nazioni Spagna, Argentina Anno 2023 Genere Drammatico Durata 112’ Interpreti Manolo Solo, Jose Coronado, Ana Torrent, Petra Martinez, Mario Pardo, Maria Leòn Sceneggiatura Victor Erice, Michel Gaztambide Fotografia Valentin Alvarez Montaggio Ascen Marchena Costume Helena Sanchis Musica Federico Jusid

 

Un film proustiano del grande basco che dopo trenta anni e ottantenne torna a comporre il suo quinto lungometraggio dissertando con la memoria, il cinema, l’identità, la storia, la modernità, l’esilio, la nostalgia con un linguaggio perfetto  che si mostra e si disfa in ogni inquadratura con una messa in scena esemplare con sequenze separate da dissolvenze al nero che si susseguono fluide. "Cerrar los ojos" è alla ricerca di un tempo perduto percorrendo i sentieri della realtà e della finzione per una emozionante e melanconica opera testamentaria non più incompiuta, immaginaria, allegorica o enigmatica come  quella che ha scandito la sua breve ma folgorante carriera di cineasta, lasciando traccia anche di una ‘anacronistica’ purezza che ritrae l’invisibile, l’ impercepibile di questa mise en abyme. Il film appunto si apre con un altro film“L’ultimo sguardo” la cui storia è  ambientata nel 1947, qui un anarchico stanco di combattere incontra un ricco ebreo sefardita per ricevere l'incarico di cercare sua figlia perché la sua malattia terminale gli richiede di vedere  per l'ultima volta i suoi occhi, lei che gli è stata portata via anni prima da sua madre, una prostitutaattrice cinese. In cambio l'ebreo promette all'anarchico abbastanza soldi per ricostruire la sua vita e smettere di combattere Franco dall'esilio. Dalla casa di campagna luogo dell’incontro si salta agli anni duemila. L'indagine di un programma televisivo vuole svelare il mistero che divora un regista, diventato scrittore, sceneggiatore e pescatore, ritiratosi in un piccolo centro della costa, dopo la scomparsa di Julio suo migliore amico e protagonista del suo film “L’ultimo sguardo” rimasto incompiuto le cui due bobine sono nel magazzino del montatore con cui il regista ha lavorato. L'intervista televisiva a cui partecipa riapre vecchie ferite e storie incompiute, così inizia per il regista il viaggio nei suoi ricordi personali per cercare di capire cosa sia potuto succedere durante quelle riprese. Obbligatorio questo incipit del plot per poter entrare nella narrazione riflessiva in quanto l’accadimento apre alla creazione dell’opera nostalgica su un'epoca perduta e un modo di vedere il mondo oggi in decadenza. La tessitura dei ricordi e personaggi che sono stati protagonisti o attori delle vicende legate alla scomparsa, la figlia, una cantante argentina in esilio che è stata la donna del desiderio di entrambi, apre le porte alla poetica di Erice fatta di immagini iconiche, ricordi proustiani racchiusi in una scatola, nostalgia cinematografica da cinéphile ritornando alle fonti siano i fratelli Lumière o Dreyer o Hawks o Ray ponendosi e ponendoci la domanda “Che cosa è il cinema” come ha fatto Bazin. Il film segue i personaggi in un vano tentativo di recuperare un passato inesorabilmente perduto più di vent'anni prima sul set cinematografico, la scomparsa di Julio ha lasciato sua figlia senza il padre e il suo migliore amico, il regista senza il suo film e quindi senza il cinema che ama. Ma i personaggi non hanno semplicemente perso o rinunciato alla loro carriera, agli affetti, alla vita che precedeva la scelta di qualcuno o la soggiacenza di altri, c’è qualcosa di più profondo. Julio è fuggito da una vita superflua quella di attore che interpreta altri, mentre il regista è fuggito  dalle sue frustrazioni e come per loro c’è un’angoscia che avvolge tutti, il montatore si lamenta che la magia del cinema è morta (poi rinnegherà le sue stesse parole quando parteciperà al progetto finale), la figlia Ana che è una guida al Museo del Prado e spiega al regista come la routine del suo lavoro abbia oscurato l’ammirazione per alcuni dei film come per le meravigliose opere pittoriche di cui parla ai turisti in visita. Tutti i  personaggi insistono nel cercare Julio o almeno le sue tracce per essere presenti e ricordagli un passato a cui hanno partecipato ma l’amico, il padre, l’amante, l’attore si sono trasformati in altro, è proprio lì che si trova nel film la convergenza tra passato e presente che l’autore cerca. Un uomo nuovo, che chiamano Gardel, persona abile nel lavoro manuale, senza pretese o desideri, che vive nel presente in un manicomio come se non ci fossero né ieri né domani, senza memoria alcuna è Julio che finalmente è stato trovato. Questo nuovo Gardel si differenzia dal suo sé precedente e dagli altri personaggi, che vivono ingabbiati nel passato: il montatore dalle bobine che conserva, il regista per la sua carriera e l’ossessione dell’amico scomparso, la figlia per la relazione mai avuta con il padre. Un film su tutto ciò che abbiamo perso come umanità e  in particolare la nostra libertà, sulle nuove estensioni artificiali che intorpidiscono e istupidiscono,  contrapponendovi il film d’autore, il vecchio cinema di quartiere, la comunità fisica e non quella virtuale, l'orto e la pesca, per non vivere stancamente, con pentimento, nostalgicamente. Dicevo nell’incipit un film proustiano perché questo ultimo film di Erice è fuori dal suo tempo. Riesce a far acquisire ogni scena, dialogo, per  riflettere intorno ad essi; guardare il cinema come uno specchio magico che rifrange la nostra stessa vita, le nostre preoccupazioni, i fervori, le gioie. Si dibattono nell’opera un passato che sembra tedioso e noioso, ma che in realtà è un magma in eruzione, e un presente invece stagnante in un'istantaneità evanescente, incapace di ogni riflessione o sguardo retrospettivo che invece dovrebbe essere come le dissolvenze al nero concatenate dell’autore, entrare e uscire nei fotogrammi del passato riflettendo sulle occasioni perdute e quelle da riproporre, una inquadratura in un’altra inquadratura per assemblare la sequenza perfetta che solo il passato e il presente filmicamente possono comporre.

 



Anatomie d’une chute di Justine Triet                                             

 

Nazioni  Francia Anno 2023 Genere Drammatico Durata 151’ Interpreti Sandra Hüller, Swann Arlaud, Milo Machado-Graner, Antoine Reinartz, Samuel Theis Sceneggiatura Justine Triet, Arthur Harari Fotografia Simon Beaufils Montaggio Cynthia Arra Costume Isabelle Pannetier Musica Thibault Deboaisne

 

Le donne intelligenti, acute, ironiche nel vorticismo logorante del mondo maschile sono le eroine che la regista colleziona nel suo corpus filmico da “La battaglia di Solferino” a “Tutti gli uomini di Victoria” e “Sibyl”, e ora con Sandra ancor di più disegna una donna pungente, potente, complessa. Questo film esplora un territorio oscuro, una scrittrice di successo accusata dell’omicidio di suo marito anch’egli scrittore di minor successo e talento, un dramma ancorato saldamente alla straordinarietà della performance della Hüller (quest’anno ai vertici attoriali anche con “La zona di interesse”). La Triet si appropria della realtà per mostrare l'usura che la sofferenza implica nelle relazioni emotive, traguardando narrativamente, al di là della trama investigativa, anatomica e giudiziaria, con una MDP dallo sguardo cupo e indifferente alle lacrime della convivenza coniugale e all'impatto sui bambini, analizza un rapporto coniugale emotivamente tessuto con grande originalità. Senza giudizio, sebbene si possa dispiegare alla visione come un saggio sulla interpersonalità dei rapporti coniugaliprofessionali, coltiva un’ambiguità suggestiva, misteriosa, direi perversa. Nel corso di un processo contorto, labirintico, macchinoso, oscuro, la regia mette in prova i confini del genere giudiziario, mentre i dettagli intimi della vita tumultuosa della coppia vengono esaminati, riesaminati e riformulati e si cercano (media e avvocati) risposte precise nei regni intrinsecamente imperfetti dell'amore e dell'arte. Solo il giovane figlio non vedente, interpretato sorprendentemente, sembra riconoscere che se non possiamo mai veramente fidarci dei nostri sensi per darci un'immagine oggettiva del mondo, dobbiamo invece rivolgerci alle verità emotive. “Anatomie d’une chute” è l'analisi della caduta fisicamoraleintellettuale di un padre e metafora della crisi familiare e del suo collasso, una critica devastante delle relazioni sociali in questo nuovo capitalismo. Un rapporto sano  di due scrittori che si amavano si rompe senza tornare più indietro quando l'uomo assorbito dal processo di creazione letteraria si rende responsabile dell’assenza che provoca l’incidente del figlio rimasto cieco. Sandra risente della sua nuova solitudine e dell'ostilità del marito e lo tradisce alcune volte con delle donne,  aggravando la depressione dell'uomo. In questa atmosfera pregna di umori malevoli il figlio, molto legato al padre,  scoprirà durante il processo ch’egli aveva tentato il suicidio e che i rapporti con sua madre erano naufragati dal suo incidente, cambiando radicalmente la sua percezione nei loro confronti. Un thriller angosciante attorno a uno scrittore in lutto per i suoi doveri paterni e al rimorso che innesca una crisi familiare che si aggrava e si conclude con la sua tragica morte senza testimoni. Sandra deve difendere la sua libertà in un processo che diventa - se verrà condannata - una minaccia totale per la sua vita per come la conosce e desidera e rielaborare una nuova relazione con suo figlio, divenuto il principale e in realtà unico testimone del caso, che pone i suoi ricordi in un posto determinante per il destino di sua madre. Il film strutturato con una introduzione, due lacerti centrali corposi che riguardano fondamentalmente il processo con tutte le sottigliezze, percezioni, verità, interpretazioni e prove, e  una conclusione. Il pubblico e il privato sono intrecciati ma senza mai dimenticare le loro differenze, sempre in perfetta tensione per spiegare il punto di vista di tutti i protagonisti, sia dalla loro profondità interiore che dalla percezione degli altri con l’obiettivo finale di mettere al microscopio i propri comportamenti, persino quelli meccanici, e ripensare ciò che facciamo e ciò che genera negli altri. Interessante è la scelta di non mostrare flashback della vita di coppia ma solo una clip audio durante il processo tale da poter essere utilizzata al nostro sguardoudito come unica immagine disponibile di queste vite insieme, utilizzabile per proiettare le nostre percezioni e comprensioni sulla coppia. E da questa tessera del puzzle emerge uno dei migliori dialoghi del film, con il quale Sandra sostiene che è impossibile comprendere la dinamica di una coppia per chi ne è fuori, poiché i litigi e le discussioni fanno parte della meccanica di ogni legame amoroso, anzi di ogni rapporto umano, quelli che oscillano tra posizioni diverse con obiettivi diversi. Alla sbarra c’è un personaggio straniero, giudicata come una straniera, è tedesca, scrive in inglese e vive in Francia, colpevole o innocente non credo lo sappia neppure ella stessa, la sua mente e quel corpo che recita quanto la parola dentro la raffinatezza di questo film che deve solo concedere di riflettere su sé stessi e gli altri che ci circondano.


Poor Things di Yorgos Lanthimos                          

 

Nazioni USA Anno 2023 Genere Commedia-Fantastico Durata 161’ Interpreti Emma Stone, Willem Dafoe, Mark Ruffalo, Ramy Youssef, Vicki Pepperdine, Hanna SchygullaSceneggiatura Tiny McNamara, Alasdair Gray Fotografia Robbie Ryan Montaggio Yorgos Mavropsaridis Costume Holly Waddington Musica Jerskin Fendrix

 

Un eccedente, ridondante, esuberante viaggio-apologo femminista che esplode continuamente in contraddizioni mai trattenute che lasciano bave di fantasmagoriche  illusioni, verità, città, in un film radicale, creativo, antinaturalistico, anacronistico e sarcastico con una fantasia illimitata, preciso esteticamente e narrativamente come tagliato da forbici di un couturier sapiente, immaginifico e visionario in cui Bella-Stone si offre selvaggiamente e meravigliosamente in una performance perfetta. La vertigine visiva ha molte pieghe e risvolti che lo stile sorprendentemente barocco sfida progressivamente, dall’intelletto alla pancia, in una gioiosa ebrezza sessuale, in una danza oscena di esplosivo scatenamento non più frenato e taciuto perché è la propria essenza. Bella è il doppio delle sorelle Justine e Juliette sadiane, l’una prima virtuosa apprenditrice che deve riempire di cognizioni una tabula rasa vivente che respira, libera da pressioni sociali, da decoro, finezza o sagacia, poco più che movimenti di uno stato puerile, pipì sul pavimento, sbattere superfici, rompere stoviglie,  cibo sputato, balbettare sciocchezze in una lingua stentata, poi contraltare diabolico che decide di darsi alla prostituzione per sopravvivere, godere, capire e divenire erede studiosa e padrona, amante sia di una donna di vita tenace e capace che di un uomo adorabilmente inetto e perennemente sbalordito, e avere addomesticato come un animale da cortile il marito padrone della primitiva Vittoria dal cui suicidio nasce la storia. Ormai confinata nella casa del suo amato Frankenstein ormai morto (sempre preciso Dafoe), padre e chirurgo tormentato con la faccia cubista, eunuco e sopravvivente con macchinari per succhi gastrici avendo sacrificato in nome della scienza il proprio corpo ai voleri del padre scienziato più folle di lui. E il passaggio dell’una all’altra ci è regalato  ironicamente  caustico, degno di Lanthimos, con la prima masturbazione e l’ausilio di una mela…Eva non è sedotta dal serpente e non seduce alcun Adamo ma sé stessa, madre e figlio insieme, che iniziano il viaggio illuminante nella fantasia erotica appena affiorata (freudianamente o no poco importa). Il mondo delle meraviglie, degli eccessi scenografici, dei costumi vittoriani manipolati e selvaggiamente esagerati, dell’irrealtà futurista, surrealista, razionalista, moresca, un mondo aperto e spaccato, inventato, fuori dal luogo e dal tempo: le carrozze trainate da metà cavalli, gli uccelli con  facce di squalo e creature informi metà maiale e metà pollo, tra città e mare, cabine e camere d’albergo, tutto si impregna della libidine di Bella che esorcizza il primo amanteavvocato con il quale si allontana dall’ovile come se iniettasse eroina dalla vagina che corre lungo le arterie fino al cervello dell’uomo che si innamora della fanciulla insaziabile che chiama il sesso “salto furioso” (un bravo Ruffalo sull’orlo della inquieta metamorfosi sino alla cella in cui par il marchese che ha forgiato le sue povere creature). La MDP volteggia su scenografie caramello o bianchi e neri voluttuosi con il suoi fisheye, primissimi piani e zoom (come nel “La favorita” a volte dissonanti) che potrebbero come una mano rivoltare la sfera e agitare la neve mostrandoci l’essenza della fola nella quale siamo immersi pienamente gaudenti, e al contempo mostrare anche l’umanità esistente con il degrado, l’orrore e la tristezza che cinicamente viene in ribalta con gli incontri sulla nave e lo sguardo sul mondo che li circonda, come l’ ammasso di corpi in un quadro di Bosch, alla base di una scogliera per i quali Bella piange e si vergogna palesando così il desiderio di Lanthimos di estendere più di una indifferenza verso l'umanità e le sue innate crudeltà. Temi cari al regista sin da Canino per come fenomenologicamente gli eventi si manifestano nella loro apparenza alla coscienza del soggetto che li osserva, indipendentemente dalla realtà fisica dell’accadimento, feticcio tematico per mondi immaginari claustrofobici in base ai quali i protagonisti di turno intendono uscire o entrare. Bella e i suoi processi decisionali che transitano e vengono governati attraverso il desiderio diventa ogni giorno più acuta e saggia e i suoi capelli corvini crescono a contornare il volto angelico di un corpo seducente e demoniaco che compie il suo viaggio erotico dallo specchio (qui freudianolacaniano) all’essere compiuto sessualmente nel mondo sessualmente richiamante. La lingua aspra, sfacciata dei dialoghi connota spesso la distanza che Bella vuole porre rispetto a chi vuole frenare la crescita della sua persona come l’avvocato e la sua gelosia  che vorrebbe l’assolutezza del loro rapporto contro la domanda di come mai l’abbia desiderato che si pone Bella. Mordacemente divertente, stravagante, pieno di così tanto da osservare e analizzare negli sfondi della picaresca avventura con personaggi secondari ben costruiti: la maitresse del casino dove Bella approda a Parigi con tatuaggi su tutto il corpo, roca e mordicchiante ; il sinistro marito militarepadronearrogante che riceverà compenso; una crocerista (la mitica fassbinderiana Hanna Schygulla) che non scopa da venti anni e il suo cinico accompagnatore; Bemba la prostituta di colore che farà approdo nella casa e nel letto di Bella ereditiera. Per concludere direi che con questo film giocando con il kitsch, l'assurdo, la favola allucinata di Frankenstein, il romanzo di formazione, l'erotismo dadaista, il grottesco più folle, la commedia nera fantastica e le parodie sociali di bunueliana memoria in una cornice prostibolare,  Lanthimos lascia traccia di influenze di Lars von Trier, Peter Greenaway, Michael Haneke, Alejandro Jodorowsky e David Lynch, in una intricata strutturazione direi postmoderna, e riprende lasciando fluttuare i semi delle ossessioni di tutta la vita registica, il surrealismo, la sperimentazione formale, il sesso delirante, il tradimento, i problemi di identità, l'enclave domestica come luogo di battaglie e quel gusto per il macabro e l'oscuro traguardato da una prospettiva artistica in bilico tra la freddezza chirurgica e il colorecalore del sarcasmo o della satira. Ma una pecca devo esprimerla, amando la sua opera dagli esordi, il film si è avvitato su sé stesso imprigionato in un formalismo eccessivo e un iperbolico estetismo ornamentale di esseri testardi che seguono i propri desideri, tutti, e per queste motivazioni avrebbero necessitato di una maggiore vita discorsiva, esprit de finesse.


Roter Himmel di Christian Petzold          

 

Nazioni Germania Anno 2023 Genere Drammatico Durata 102' Interpreti Thomas Schubert, Paula Beer, Langston Uibel, Enno Trebs, Matthias Brandt Sceneggiatura Christian Petzold Fotografia Hans Fromm Montaggio Bettina Böhler Costume Katharina Ost

 

L’eleganza intellettuale di un film tagliato con il bisturi per una mutazione quasi invisibile ma percepibile del suo corpus, dai connubi rohmeriani alle metalinguistiche ozoniane. Uno stato di grazia che guida il regista tra la mente e il cuore in una tragicommedia mai arbitraria, acuta, sottile, raffinata, umoristicamente acida, recitata da un cast affiatato   che viene portato per mano dalla musica diegetica dentro sfumature emotive e fragilità. In “Undine” l’acqua mitologica qui il fuoco minacciosamente a latere, per questo secondo paragrafo sull’amore che vuole ricomporre e ridisegnare le coordinate di genere della commedia romantica e lo fa con quattro giovani, un casale di campagna, il mar Baltico, un incendio, le poesie di Heine e la presenza aleggiante della cultura tedesca (riferimento a Uwe Johnson). Lo scrittore irritabile Leon  e il fotografo spirito libero Felix  si ritirano nel cottage per lavorare l’uno al suo romanzo l’altro a un portfolio per l’ammissione alla scuola d’arte. Qui trovano la misteriosa Nadja, ospite della madre di Felix proprietaria della casa, che conoscono solo attraverso i gemiti sessuali notturni che emette negli accoppiamenti con Il bagnino Devid. Petzold riunisce un gruppo di quattro persone per inscenare giochi e dinamiche di relazione contrarie alle norme di una commedia romantica. Leon è subito ipnotizzato da Nadja, rossa venditrice di gelati con i piedi per terra e estroversa, Felix inizia a preoccuparsi per le infiltrazioni d'acqua dal tetto e per il bel bagnino ormai ospite stabile e gli incendi incontrollati che iniziano a divorare il bosco circostante. Una triade di eroi positivi posti a confronto dell’antieroe della narrazione Leon, irritabile, egocentrico, insicuro del romanzo che il suo editore dovrebbe leggere, andando a trovarlo, per deciderne le sorti, un misantropo moliereiano, un protoamantetacito irascibile che le relazioni interpersonali tengono isolato dagli altri. Leon è il nodo nevrotico del film, il suo atteggiamento misantropico deriva dalla sua incapacità di godersi semplicemente la vita, come dalla sua preoccupazione patologica per il lavoro, le insicurezze e ansie.Oltre all’arte e all’amore celato o mostrato, goduto o sofferto,  la natura è un’altra forza trainante della narrazione, la distruzione senza compromessi degli incendi che lasciano solo terra bruciata e animali morti  è la potente metafora per le attività artistiche ed esistenziali dei protagonisti, della civiltà, dell’essere. La regia tesse una ricca varietà emotiva, dal benessere al tragico, con un melodramma camaleontico che passa elegantemente dall'amicizia al romanticismo e alla tragedia etero e omosessuale. Devid inizia una relazione con Félix  mentre l'attrazione di Leon per Nadja si manifesta attraverso una contraddittoria altalena di calore e maltrattamento, apertura e chiusura del suo universo emotivo mentre la donna penetra sottilmente  i diversi strati protettivi della sua psiche e del suo ego artistico, che viene però danneggiato quando Nadja critica ferocemente il nuovo romanzo. Mentre queste dispute si intrecciano, l'editore arriva sul posto per rileggere con Leon il romanzo ma finisce per passare più tempo con Nadja, che si scopre essere un critico letterario che sta preparando un dottorato su Heine, a tavola recita una sua poesia Asra sulll’amore  che consuma; le fiamme dell’incendio sempre più vicine, la cenere portata dal vento cade sulla casa. Un magnifico studio sui personaggi, sui sentimenti, su come possono essere repressi e su come possono emergere quando è troppo tardi. Un film sulla giovinezza e la sua immaginazione, razionalità, fantasia, verità e la menzogna, e ancor di più non quanto sia folle la sua intrinseca immaginazione, ma quanto è disposta a immaginarla. Una scrittura intellettualmente avvincente, provocatoria, accattivante senza goffaggine, ipnotica dall’iniziale guasto dell’auto che isola, emargina, ai rumori della foresta che accerchiano i pensieri. La MDP è impeccabile sviluppa  inquadrature a volte disorientanti che si appropriano della scena per condurla verso il luogo sconosciuto al quale i protagonisti sembrano predestinati, zone pericolose e misteriose fino a un limite, molto lynchiane. La Beer (già in "Undine" e "La donna dello scrittore" per la regia di Petzold) sorprende ancora una volta con uno straordinario magnetismo nell'attirare lo sguardo e la  mancanza di carattere e carisma del personaggio interpretato da  Schubert, stabilisce  un rapporto di coppia disomogeneo che funziona perfettamente per la logica del film. "Roter Himmel" è una storia  di dissidi, di amori impossibili, ma anche di un’aria magica come un ‘Sogno di una notte di mezza estate’ che si muove tragicamente  in un'ambientazione insolita, dove accadrà l’irreparabile, si dipaneranno i contrasti, si scriverà il romanzo già dettato dalla vita vissuta ma anche senza guardare insieme le alghe scintillanti,  senza la foto di Nadja che guarda il mare ma solo quella del mare, con una coppia carbonizzata in un abbraccio, l'assenza di lacrime sul viso dell'autore con i pensieri infiniti del romanticismo di Pompei, con la forza vulcanica della natura che ancora una volta si è imposta davanti allo sguardo della catastrofe reale e sorrideranno con accanto la morte, dietro un cespuglio giocando con una carrozzina a rotelle…e una canzone che chiude questo film dopo averlo aperto, dopo averlo ispirato risuona “In my mind”.

 

 

Sparta di Ulrich Seidl

Nazioni Austria-Francia-Germania Anno 2022 Genere Drammatico Durata 101’ Interpreti Georg Friedrich, Hans Michel Rehberg, Florentina Elena PopSceneggiatura Ulrich Seidl, Veronika Franz Fotografia Serafin Spitzer, Wolfang Thaler Montaggio Monika Willi Costume Tanja Hausner Musica Klaus Kellermann

 

Una riflessione desolata, cruda, inquietante e molto oscura su una esistenza imprigionata. Dittico con "Rimini". Due fratelli, una madre morta, un padre dai rigurgiti nazisti che l’alzheimer  gli concede tra le mura della casa di riposo; entrambi i film sono studi di caratteri ben definiti, Seidl passa dalla tragicommedia turbolenta e voyeuristica di  Rimini a un osservatorio a combustione lenta e contemplativa del tumulto interiore in "Sparta"! nel desolato ritratto della pedofilia con una riflessione affranta, cruda, inquietante, plumbea di una vita asserragliata nel desiderio. Seidl documenta con moderazione e sottigliezza la storia in un film intelligente, potente, buio, inquietante, terrificante e tragico. L’agghiacciante e iperrealistica via crucis di un pedofilo, Ewald, (magnifico Friedrich) e l’estrema crudezza poetica di Seidl che estrae dalle torbide acque del sottosuolo povero dell’esteuropeo la sua vocazione simbolica. Riservato e freddo il protagonista si trasferisce in Romania per incontrare una ragazza che dovrebbe sposare ma si rende conto della mancanzarifiuto di vita sessuale con lei, e al contempo l’evidente interesse a condividere i 'giochi' con i bambini che incontra casualmente o intenzionalmente. Così abbandona la donna per la irriducibile attrazione verso i bambini e decide di fondare una palestra ludicosportiva, Sparta, in un abbandonato edificio scolastico dove si anniderà la cupa torbidità tra mentore e infanzia maltrattata, esclusa dalla povertà e l’assenza, sequenza di patologie sociali coltivate nel pozzo della dimenticanza. Piccoli eroi greci modelli per le sue fotografie, attenzioni, timide carezze, accostamenti, pensieri. La regia disegna il ritratto di Ewald frontalmente, senza sotterfugi, estende la visione della sua conoscenza con inquadrature fisse prolungate e perfettamente esemplificative, in modo acido, incisivo e sordido per radiografare con lui la società attraverso questo personaggio tormentato, dall'aura pacifica, che inquietantemente evoca e nasconde il "mostro" che fatica a mostrarsi con la sua voracità. Seidl anche in questo film è un cronista essenziale del nostro tempo, un osservatore capace di sezionare, da vicino e con spirito implacabile, sia il buco morale della presunta Europa del benessere, sia i pochi territori di resistenza affettiva non contaminati dai fantasmi della Storia e del capitale. La sua "pornografia sociale", come egli stesso la definisce, dirigendo la MDP verso l'abietto o l'esecrabile con sorprendente naturalezza, mette alla prova la sensibilità dello sguardo. Egli non teme di confrontarsi con la realtà che esula dalla finzione che produce, e in "Sparta" dichiara la sopravvivenza del nazismo, la pedofilia, il confronto tra diverse mascolinità e la nefandezza perpetuata dal patriarcato, traguardando in modo clamoroso, stranamente accattivante, doloroso e realizza un film meditabondo e contemplativo su un pedofilo; anche un suo illustre connazionale Thomas Bernhard diceva... "gli austriaci sono ancora nazisti oltre che ignoranti e apatici". "Rimini" e "Sparta"  sono la versione maschile della trilogia del "Paradise love, faith e hope" che è femminile, sono entrambi progetti formulati sul tema antropologico caro al regista: la solitudine e la conseguente condizione umana. Il melanconico, dolente  Ewald vaga per le zone rurali della Romania ricostruisce una scuola fatiscente e convoca i ragazzi poveri per insegnare il judo gratuitamente, uno sport di contatto per ragazzi in età prepuberale provenienti da famiglie miserrime, Ewald sfrutta le pulsioni pedofile nel vederli combattere, denudarsi, mostrare i 'muscoli', fotografarli ma non soccombe del tutto, riesce a trattenersi, la sua lotta interiore diventa il punto cardine del film, non una denuncia critica dei pedofili predatori come in "Michael" di Schleinzer. Ewald non tocca i bambini, non in modo inappropriato, e li cura con attenzioni paterne,offre ai bambini trascurati e maltrattati l'attenzione di cui sono stati derubati dai loro padri, Insegna loro il judo, costruisce una fortezza, li fornisce di un serbatoio d'acqua in cui tuffarsi e dà loro un'armatura da centurione e soprannomi della mitologia greca. Nulla è esplicito, inappropriato, con un'eccezione. Ewald, nella foga di un gioco infantile, si toglie spontaneamente il costume sotto la doccia, i ragazzi sono per un attimo sorpresi ma continuano a scherzare, una sequenza imbarazzante che audacemente la regia costruisce e Friedrich recita in uno stato di eccitazione sessuale, pregevole momento di fiction per inquadratura, movimenti di macchina, azione, climax. Cosa vuol dire convivere con un'attrazione sessuale per i minorenni? Il protagonista, nei silenzi, nei gesti, nelle posture ci lascia ascoltare i suoi muti pensieri quotidiani e avvertire la forza di volontà che deve esercitare su sé stesso per evitare la trasgressione. "Sparta" formula due strati complementari, il primo strettamente psicologico del conflitto del protagonista, il secondo livello invece si propaga a una dimensione sociale dove qualcuno tenta di porre rimedio a un’infanzia miserabile per i bambini trascurati anche se guidata da un’attrazione sessuale non oltraggiosa. Il conflitto morale alimenta la tensione che porta il film in una condizione quasi contemplativa che Seidl tiene deliberatamente in una zona grigia senza accusare, giudicare, incriminare il suo protagonista, regista controverso apre una discussione sui confini non solo etici, ma anche concettuali.

 

Trenque Lauquen di Laura Citarella

 

Nazioni Argentina, Germania Anno 2023 Genere Drammatico Durata 262’ Interpreti Laura Paredes, Ezequiel Pierri, Rafael Spregelburd, Cecilia Rainero Sceneggiatura Laura Citarella, Laura Paredes Fotografia Gustavo Biazzi, Elisandro Dalcin, Miguel de Zuvirìa, Inés Duacastella, Lisa Lombardo Montaggio Miguel de Zuvirìa, Alejo Moguillansky Costume Flora Caligiuri Musica Gabriel Chwojnik

 

La fascinazione per la densità e l'originalità delle sue trame e sottotrame, della sua struttura non lineare che continua a cambiare volto e straripare nella sua lunghezza e dilatazione temporale, come il fiume presocratico del  'tutto si muove e nulla sta fermo e non si potrebbe entrare due volte nello stesso fiume'. L'estensione temporale consente un favoloso labirinto di personaggi e storie intessute in una struttura narrativa borgesiana che lo rende unico e incomparabile, provocatorio e enigmatico, anche  un esercizio di stile, letterario, forse autoreferenziale, ma che rapisce per lo schema di trama da cui emergono nuove narrazioni come rizomi che allargano il campo della loro orizzontalità vitale per nutrire l’ordito. Un film ambizioso dove tutto ha significato organico dentro il mistero che un espediente narrativo, irrilevante o insignificante di per sé, serve a fornire motivazione alle azioni dei personaggi e allo svolgersi degli accadimenti (il mcguffin caro a Hitchcock). Trenque Lauquen è una piccola città nella provincia di Buenos Aires, dove Laura una biologa assunta dal comune per classificare le piante locali all’improvviso scompare senza lasciare traccia.  L'autista assegnatole, il gentile impiegato comunale Ezequiel e il suo fidanzato, lo stupido Rafael si pongono il compito di seguire le tracce della sfuggente donna. Tanti perché senza alcuna risposta cingono il mistero della scomparsa e della ricerca in dodici episodi suddivisi tra la prima e la seconda parte del film, costruito in un dittico. La casa dove andare a vivere, la carriera universitaria, il rapporto nato tra la giovane biologa e il suo bonario autista, la scoperta di lettere del passato nascoste nei libri della biblioteca locale che raccontano una storia d'amore e sesso proibita tra una donna e un uomo sposato del paese…indagini in labirinti in cui i flashback diventano sempre più illuminanti e ci trascinano nel  vortice delle passioni  di una storia che all’apparenza potrebbe essere sentimentalamorosa sia nel passato come nel presente con  Ezequiel profondamente innamorato di Laura, vero nucleo emotivo di una bellissima tacita intesa e desiderio. Ma la svolta perversa vanifica ogni percorso narrativo convenzionale e senza precisare quanto accade di stravagante - mostro, lago, due donne che lo nascondono - ci troviamo dentro il vero punto di vista: chi cerca chi? La pelle narrativa è mutata come quella del serpente e chi fa la ricerca non sono i due uomini ma Laura stessa. È qui che emergono i vertiginosi giochi cronologici del film che ricordano Béla Tarr e  Raúl Ruiz, andando avanti e indietro nel tempo replicando i punti di vista di più personaggi, i livelli di annidamento narrativo che spesso impiegano flashback all'interno di flashback per un effetto spiazzante. La straordinaria abilità con cui è costruito "Trenque Lauquen" è dimostrata dal fatto che non è arbitrariamente diviso a metà, c’è una deliberata scelta, distinzione tonale e narrativa, oltre che tematica tra le due parti, la prima ha una maggiore presenza di figure maschili, la seconda è più guidata dalle donne, con questa parte del film che porta con sé un tono molto più inquietante, a volte  lynchiano. Ci sono ottime performance di Laura Paredes ed Ezequiel Pierri, lei con cambiamenti tonali lui nell’equilibrio tra mascolinità e sensibilità, come suggerimenti e allusioni nel creare storie di mostri senza usufruire di posticce costruzioni,  una stridente colonna sonora che lega e contiene indizi, la MDP sapientemente veicolata nelle esigenze grammaticali delle sequenze. Il lavoro di Citarella è sicuro e superbo, porta avanti il suo racconto elaborato e complesso con sicurezza e coerenza. Un seguito spirituale del suo precedente “Ostende” a rivendicare attributi e preoccupazioni tipicamente concessi agli uomini: curiosità e mistica, donne  alla ricerca di risposte che indagano su altre donne, interessanti e misteriose e con una vita interiore propria. Nella visione di Citarella, sono le donne a meditare sui grandi misteri e a cercare un’assoluzione che può essere trovata o meno. Nelle pieghe all'interno del costrutto centrale ci sono storie di femminismo e autodeterminazione, di abnegazione e amore. Il lungo finale senza dialoghi che cambia improvvisamente anche le sue proporzioni di schermo per una coda puramente visiva, è un momento straordinario di cinema che nell'inquadratura finale, nella serena panoramica mizoguchiana di andata e ritorno con cui si conclude piacevolmente affascinantemente estenuante il film  scopri che la frustrazione che hai provato era parte dell'esperienza filmica che in quel ritmo lento e triste ha  risuonato magicamente nella testa e nelle viscere della visione.

 

 

 

 

Passages  di Ira Sachs                             

 

Nazioni Francia, Germania Anno 2023 Genere Drammatico Durata 91’ Interpreti Franz Rogowski, Ben Whishaw, Adèle Exarchopoulos Sceneggiatura Mauricio Zacharias, Ira Sachs, Arlette Langmann Fotografia Josée Deshaies Montaggio Sophie Reine Costume Khadija Zeggai Musica Romain Anklewicz

 

Premetto che Sachs non è tra i miei registi preferiti, spesso mi annoia, altre mi infastidisce intellettualmente, scrivo invece di questa sua ultima opera che mi ha affascinato in quanto riesce, narrando di un  triangolo amoroso omoeterosessuale, tra gli avamposti più insidiosi per i cliché dei cliché, a non esserne contagiato con una messa in scena audace ma contenuta e attenta alla drammaticità delle tensioni facendo emergere la verità di ogni personaggio. Narciso, la sua crisi, il suo ritratto morboso in un film carico di erotismo sorprendente in cui si mostra con saggezza dei tessuti emotivi dei nostri tempi circuitandoli in un dramma intelligente e crudele del quale ci si innamora. La regia cattura la natura irresistibile della passione e ciò che la alimenta ma anche le variabili che possono farla esplodere e in questa altalena di apici e terra si articola la complicità di tre attori assolutamente straordinari (di Rogowski in più occasioni ho detto di considerarlo il miglior attore europeo, per composizione drammatica e  ricchezza di registri). Un film nel quale viene traguardato il desiderio con le sue segmentazioni di attrazione, contrasto, tensione, rifiuto, la parte più intensa e quella più tossica di una relazione d'amore, duplice in questo caso. Il film gioca una carta difficile con un protagonista dispotico, egocentrico, manipolatore che potrebbe rendere la narrazione incoerente, sgradevole e tutti i personaggi vincolati dall’orrore comportamentale. Invece il film è ‘radicalmente’ bello, magnificamente immerso dentro le inquadrature della MDP che accerchia e mostra i pori e l’anima, sovrappone l'angoscia ravvicinata alla distanza lunga di ascolto, in cui anche un incontro sessuale tra i due uomini abbaglia per incantamento e stupisce per la sua verità. 

Una traccia estremamente semplice e narrabile: un regista tedesco molto fassbinderiano (gestione nei minimi dettagli degli attori sul set e le corte magliette a rete) irrequieto ed egocentrico, Tomas, sposato con  Martin, incontra  Agathe ad un party dopo una stressante giornata di fine riprese e in una conversazione dopo aver fatto sesso le dice che si è innamorato di lei, ribadendo che lo dice sul serio. Da questa comunione di anime nasce il dramma che diventerà il triangolo amoroso brutalmente autodistruttivo e tossico. Un nuovo dramma che è allo stesso tempo generosamente tenero nella sua brutalità e spietatamente brutale nella sua tenerezza, in cui respiriamo la sessualità come gli egoismi, la modestia della sua storia diventa un punto di forza, anche perché  non lascia spazio alla felicità dei suoi personaggi mentre si muovono verso una comprensione schiacciante e onesta di ciò che vogliono da sé  stessi e dagli altri tra tradimenti casuali e gravidanze non pianificate. Tomas  inquadra quella comprensione, conquistata a fatica, come la causa principale del suo problema, Martin lo conosce così bene e forse per questo lo ha lasciato e Agathe lo sa, glielo dice. Il cerchio di questa insostenibile leggerezza del desiderio si chiude perfettamente nella sua imperfezione. Tomas vuole tutto e si scontra con  Martin e Agathe con una forza distruttiva che minaccia di allontanarli entrambi. Molto ispirata alla sterilità narrativa di Pialat che vela le turbolenze sotterranee come la velocità con cui le cose sfuggono a Tomas e la sua impotenza nel fermarle. Sachs traduce in immagini il fattore emotivo più che parole o codici verbali ed enunciati, il linguaggio principale è quello del corpo come quello del loro incontro iniziale quando avvertono la vibrazione del desiderio e dell'affinità reciproca, che li scuote improvvisamente, in una tensione sessuale inaspettata che rappresenta uno dei momenti più intensi e inspiegabili  e poi gli sguardi, e il silenzio ondivago e rotto. La vita in scena. I punti narrativi del film lontani dall'essere pronunciati attraverso le labbra, sono simboleggiati nella profondità dei respiri e dei movimenti e in questa strategia narrativa le qualità di Rogowski si sviluppano in modo unico e sorprendente avvicinandoci sempre di più alla verità della sua intimità e all'energica pluralità dei suoi sentimenti enigmatici e misteriosi. Il film finge una promessa nel titolo: le transizioni,  il passaggio da una forma di relazione all'altra ma non ci sono perché Tomas non lo consente con la sua personalità abbagliante, né eteronorma né omonorma, ma potrebbe rivelare  anche altri suoi molteplici significati: il titolo del film di Tomas; i momenti transitori osservati dalla MDP; i vari passaggi anatomici che questi personaggi sondano nella loro ricerca di soddisfazione; le strade secondarie che Tomas percorre freneticamente come amante. Il ritratto di un narcisista con la sua personalità vivace e il suo entusiasmo infantile,  disarmante e così attraente,  che sfreccia sulla sua bici da corsa nelle strade di Parigi, non romantica ville lumiére ma luogo vissuto e logoro di danni collaterali diffusi, mentre organizza la sua complicata vita amorosa. Lui è esaltante quanto specchiante di una fascinosa volontà intima per chi lo guarda a non voler essere regolarecontrollatomoderatocontenuto, perché l'amore è, l'amore rimane una fonte di agonia.


 

Fallen Leaves di Aki Kaurismäki      

 

Nazioni Finlandia Anno 2023 Genere Commedia drammatica Durata 81’ Interpreti Alma Pöysti, Jussi Vatanen, Janne Hyytiäinen, Nuppu Koivu Sceneggiatura Aki Kaurismäki Fotografia Timo Salminen Montaggio Samu Heikkilä Costume Tiina Kaukanen Musica Pietu Korhonen

 

Una grande umanità, oserei chaplinianakeatoniana, in tempo di guerra dove tutto si sgretola, ma la personale desolante visione del mondo  di Kaurismaki crea nel vuoto il romanticismo minimalista senza sorprese stilistiche ma con una partitura per la quale si rimane affascinati e commossi: atipicità, bellezza e purezza delle solitudini e dell’amore. Come sempre, e forse di più, nell’ambito del suo cinema questa volta cancella dal suo non esercizio di stile ogni accenno di forma, manierismo, quasi guardasse il mondo per la prima volta e, forse, per sempre perché potrebbe essere l’ultima. Descrive la prova definitiva della nudità, priva di drammi, della sofferenza, dell'alcolismo e della povertà della classe operaia. I personaggi di Kaurismaki attraversano lo schermo con l'anima docile, affettuosa e indifesa, senza esibizionismi, talmente consapevoli del proprio dolore da limitarsi a respirare. Non vi è disordine nel sistema vita del regista ma solo ‘il niente che è tutto’ ( formula a me cara dalla nomenclatura warholiana alla pittura che vorrei ricercare, al cinema che amo), non c’è una prassi della realtà ma la realtà stessa sorretta nel vuoto. Questa è la materia filosofica dove la regia muove  i due protagonisti solitari che come tutti i personaggi di Kaurismaki, insieme, costituiscono una moltitudine di manifestazioni di solitudine. Due anime sole che lentamente ma inesorabilmente si innamorano l'una dell'altra, lei sopravvive da un lavoro precario a un lavoro ancora più disdicevole, lui, beve molto, vive male in una situazione così simile all’altra da potersi dire identica. E così via finché un giorno si incontrano, vanno a vedere un film sugli zombie e immaginano la possibilità di continuare altrettanto male, ma con un cane e insieme. La condivisione delle cose cambia tutto perché  diventa la forma di resistenza più radicale. Il regista riduce ogni movimento quasi a un fermofotogramma, ogni frase a una sola parola, ogni carezza a un semplice sguardo, fino a realizzare una meraviglia nella sua assoluta inconsistenzaleggerezzapovera, un film vertiginoso nella sua immobilità, divertente nel tragico, pulito nella sporcizia. Ansa lavora in un supermercato dove ha il compito di cestinare i cibi scaduti ma viene licenziata per averne sottratti per donarli a  un senzatetto, poi trova lavoro come lavapiatti presso un pub che viene chiuso dalla polizia per spaccio di marijuana, e in una fabbrica, dove adotta un cane randagio. Holappa  un metalmeccanico alcolizzato  che viene licenziato dal lavoro a causa di un incidente che il suo capo attribuisce all'alcolismo quando in realtà il problema era dovuto a un tubo danneggiato, successivamente trova lavoro in un cantiere edile come muratore e viene nuovamente cacciato perché il caposquadra lo vede bere di nascosto durante il lavoro. Si incontrano per caso la prima volta in un bar karaoke, prima di andare al cinema, dove guardano la commedia horror The dead don't die di Jim Jarmusch. Lei gli lascia un bigliettino con il numero di telefono che Holappa perde quasi subito, entrambi non hanno cellulare né sono a conoscenza dei social, questo è anche il fascino di questi esseri umani per la regia. Come se si fossero perduti nel niente tornano in giorni e orari diversi in quel cinema nella speranza di rincontrarsi….Il loro corteggiamento casuale, è ostacolato dal bere e dall'inaffidabilità di lui, e dalla bassa opinione di lei per il sesso opposto anche perché ha perduto padre e fratello per l’alcolismo e la madre per il dolore. Questi personaggi restano asciutti, essenziali, come le immagini sono chiamate a mostrare: un pezzo di carta spazzato via dal destino per tenere separati gli amanti, un anello di mozziconi di sigaretta, Ansa che si prepara per l’ appuntamento a cena acquistando un piatto, un coltello e una forchetta in più, la perfezione della narrazione sopracitata. La MDP usa come sempre inquadrature teatrali e i colori solidi per ravvivare gli sfondi scialbi, insignificanti e la semplicità della tecnica con la corrispondenza tra campo e controcampo, tutto questo conferma come Kaurismaki sia un cineasta fuori dal tempo, l’ultimo muto nell’assordante frastuono della vita che lo circonda. C’è qualcosa di potente e gratificante nel film e nel suo cinema tutto,  la profonda comprensione di quanto sia difficile andare avanti, di trovare la gioia, in un momento storico in cui ci sono forze in campo che cercano  di abbattere e schiacciare ogni felicità. Di fronte alle tristezze sempre invadenti e apparentemente incontrovertibili di questo mondo, Kaurismäki racconta che la semplice malinconia potrebbe essere accolta come una ricchezza da condividere. Il rapporto tra Ansa e Holappa si approfondisce tra muri smangiati di case fatiscenti,  giornate grigie, notiziari sulla guerra in Ucraina, individui stanchi e laconici che bevono vodka e  ascoltano musica rock,  scorci fuori dal cinema che regalano locandine di film di Bresson, Jarmusch, Godard, le canzoni melanconiche che parlano del profondo desiderio di un amore che è già passato o che non arriverà mai, ricordare e aspettare sono vibrazioni sostitutive, la vita con tutti i suoi fardelli e le sue delusioni è profondamente scolpita  nei loro volti sorprendenti. Piccole storie di piccole persone in difficoltà questo è il mondo di Kaurismaki che i suoi tableaux disposti con cura e dipinti con i suoi colori preferiti diventano un antidoto alla loquacità e all'isteria dei nostri giorni, per l'essenziale basta uno sguardo senza psicologia che domandi perché e come, le persone sono come sono. Il laconico finlandese racconta atti di solidarietà,non solo una ricerca di conforto, ma la dimostrazione della disponibilità e comunanza che sono il mezzo per combattere l’impotenza generale di fronte a un mondo troppo duro dove la coesione e l'amore sono tutto ciò che ci separa dal baratro. In questo deserto del nulla, come spesso ripeto, venire fuori dalla cataratta di spazzatura anodina del mainstream anestetizzante e omologante senza idee o cattive idee e sempre ancorate a pessimi costrutti narrativi e tecnici, incontrare Kaurismaki dalla trilogia proletaria degli inizi della carriera "Ombre in paradiso", "Ariel"  e "La ragazza della fabbrica di fiammiferi", a quella delle "Nuvole in viaggio", "L'uomo senza passato" e "Luci al tramonto" più votate all'esistenzialismo, fino a "La vie de Bohème",  "Le Havre" e  il realismo poetico francese di Jean Renoir, Marcel Carné, Julien Duvivier e Jean Vigo, è immergersi in una melanconia omologata con delusione e dolore,  è un balsamo della percezione, della coscienza, della intelligenza, è cinema, con il suo ascetismo bressonianotraguarda gli ostacoli all'amore in età adulta, la precarietà lavorativa e l'instabilità che genera, la miseria, l’angoscia in  un labirinto kafkiano disumanizzante...che esiste, che ci appartiene, che bisogna guardare senza voltarsi come ci insegna l’autore.


Una sterminata domenica di Alain Parroni

 

Nazioni Italia Anno 2023 Genere Drammatico Durata 155’Interpreti Enrico Bassetti, Federica Valentini, Zackari Delmas, Lars Rudolph Sceneggiatura Alain Parroni, Giulio Pennacchi, Beatrice Puccilli Fotografia Andrea Bejamin Manenti Montaggio Riccardo Giannetti Costumi Sara Cavagnini Musica Shiro Sagisu

 

 

Un debutto italiano molto interessante quello di Alain Parroni che traguarda con una ottica visiva  esteticapoetica la nuova generazione ‘condannata’ della periferia romana non più sottoproletaria nel corpo e negli intenti. Caligari era per metà godardiano e l’altra pasoliniano, Parroni è caligariano con ancora la punteggiatura scalfita da rigurgiti intellettuali ma pur sempre esplosivo non narrativamente ma emozionalmente. L’inseguimento ininterrotto per trovare qualcosa che se anche troverai non apprezzerai e forse non vuoi in un astratto e coloratissimo non luogo inespresso dove due ragazzi Alex e Kevin e Brenda la compagna di entrambi avvertono la giovinezza liquefarsi da una incerta solidità in una irresoluta fusione. Potrebbero essere nichilisti in lotta nel tentativo di costruire un senso identitario in una vita che è poco generosa che invece genera una violenza psichedelica che pervade l’aria sin dalle prime inquadrature con una macchina in panne, una acidità di dialoghi sputati in faccia dalla MDP abbagliante, accostante, aderente. Le cose accadono, accadono velocemente, tutto corre su auto o moto da soli, in due o in tre come personaggi dei film freak di Larry Clark in “Kids” o disperati dall’ aids di Gregg Araki in “The doom generation”, così come di raffronto  i ragazzi delle banlieue di Kassovitz  in “Odio” o il bellissimo “Les misérable” di Ladi Ly  di accurata stratificazione di lettura; ma questi di Parroni sono ancora più nell’afflizione del vuoto in una struttura filmica meno naturalistica dell’uno  e strutturata dell’altro regista o socioculturale dei francesi. Alex inizia a lavorare per un contadino tedesco atipico e delinquente, Kevin ruba quando può e assume sempre pose ‘guerriere’, Brenda scopre di essere incinta e sua nonna arcaicamente sciamanacredente cerca di affiancarla  benevolmente. È un poema visivo caleidoscopico infinito, urlato, sonoro e visivo, che a parte tracce reali ha poca connessione con la società, il mondo esterno. Una metafora della disconnessione (l'immersione accidentale del cellulare di Alex), un grido, un lamento, un canto di ‘nuova gioventù’ abbandonata non più iconica come i ragazzi di vita ma atrocemente sofferente in un film radicale e originale. Una sequenza per tutte, la più bella del film, quando la rivalità per la stessa donna si accende in una lotta primordiale sulla spiaggia scura, come guerrieri achei, sotto il cielo livido di un’alba uguale alle altre, che la regia allarga in un campo visivo ampio fatto di nervi e sangue umano e natura spettatrice. Trio eccezionale di attori adolescenti in una narrazione minimale e scarna, uno scontro  e un confronto rurale e urbano, vero, solo rovina fisica e morale di una gioventù tradita, defraudata dalle Erinni, vittime funzionali di un futuro incerto, di un passato stupido e di un presente pieno di delusioni, questa  la scelta di Parroni che saprà disimpegnarsi da troppi vincoli e renderà fluida la punteggiatura della sua opera futura.

 

 

 

L’été dernier di Catherine Breillat 

Nazioni Francia Anno 2023 Genere Drammatico Durata 104' Interpreti Léa Drucker, Samuel Kircher, Olivier Rabourdin, Clotilde Courau Sceneggiatura Catherine Breillat, Pascal Bonitzer, Maren Louise Käehne Fotografia Jeanne Lapoirie Montaggio François Quiqueré Costume Costance Allain Musica Romain Anklewicz 

Dronningen di Maye el-Toukhy

Nazioni Danimarca Anno 2020 Genere Drammatico Durata 127’ Interpreti Trine Dyrholm, Gustav Lindh, Magnus Krepper, Carla Philip Røder Sceneggiatura Maren Louise Käehne, May el-Toukhy Fotografia Jasper Spanning Montaggio Rasmus Stensgaard Madsen Costume Rebecca Richmond Musica Jon Ekstrand

 

L’argomentare di questo film offre il destro per navigare anche nel film danese del quale è il remake. Li ho visti cronologicamente quindi raccolgo la sfida dall’idea primitiva della sceneggiatura che campeggia rigorosa, geniale  nel film danese più vacillante in quello della Breillat. Meticoloso, preciso, virulento, estremamente sensuale e esplicito l’uno, con una fellatio e altro senza veli,  pudori o desideri sottotraccia; l’altro è più cinema meno visione diretta, cruda, meravigliandoci visti gli accordi sempre usati  dalla cineasta francese, non per vizio ma per forma. Ma per entrambi, il motivo che ha suscitato una coinvolta fascinazione e mi ha spinto a una parallela riflessione  è la borghesia predatrice, l’adolescenza che subisce le prevaricazioni, la mistificazione di una facciata rivolta pubblicamente alla tutela e su tutto quella che è l’anima nera dei film: la menzogna,  degna di punizione biblica. Due famiglie benestanti, ville ai margini delle città, le due protagoniste avvocate specializzate nella tutela dell’infanzia maltrattata, stuprata, emarginata e i relativi interventi e affidamenti, cinquantenni capaci, volitive, eleganti, libere, l’una con due figlie l’altra con due bambine adottate, due mariti affaccendati ma presenti, due sensualità diverse ma avvertibili come falene alla luce, due giovani minorenni figli dei rispettivi mariti da precedenti matrimoni si aggregano alle famiglie per un periodo di riflessione e malcontento, questo amalgama di fattori e individualità  in entrambi i casi porta verso limiti che si vorrebbero superare, verso buchi neri che potranno essere solo dolorosi per le fragilità marcate degli adolescenti. Tutto accade in modo audace allontanandoci sempre più dalla sua sorgente moralistica, la Breillat e  el-Toukhy cercano in modi diversi con ogni sinuosità dispiegabile di non condannare aprioristicamente le loro protagoniste mettendo a nudo il cuore sacro delle famiglie che invece sono già lacere dall’obbligo di preservarle dall’esterno, dalla diversità, nella mediocrità del loro rifugio uterino in cui rinsaccarsi per essere tutt’altro, liberi e mefitici celati  dentro l’antro buio della menzogna. Il respiro dei due film è il desiderio vertiginoso, la divergenza tra amore coniugale e desiderio carnale, il rifiuto del vittimismo e l’estrinsecazione di una libertà sessuale che sconfessa le restrizioni della morale, del corretto. La Breillat da sempre sacerdotessa della sessualità femminile errante, dell’iniziazione sessuale, del sesso non simulato, sin dagli esordi del “Une vraie jeune fille” censurato per un ventennio, in questa sua ultima opera cerca e trova provocazioni più cerebrali, come la crudeltà latente del romanticismo eterosessuale. Anne è presa da una lussuria che minaccia di far crollare le fondamenta della sua vita, pur non evitando il sesso con le nudità totali o i membri esposti, al contrario che in “Dronningen”, non a favore di MDP che si muove invece catturando volti e primissimi piani sorprendentemente intimi, dolorosi, rapiti comunque carichi di eros. Evidentemente sono film che si differenziano pochissimo in successione di sequenze, persino dialoghi e identici per plot, con un finale plumbeo l’uno ectoplasmatico l’altro, ma di approccio completamente diverso per due cinematografie, danese e francese, molto diverse al di là delle personalità registiche legate dall’essere entrambe donne. Il film danese è teso e severo sino all’ultima inquadratura che lo chiude, mentre quello francese cerebralmente poetico fino alla sequenza che lo conclude e la scelta del giovane amante connota visivamente la differenza: Gustav brutale, opaco, misterico, Théo docilmente efebico. Poi oltre gli amanti, i sotterfugi, arriva la rivelazione e la menzogna nel momento cruciale che ti rapisce in modo sconcertante sottolineando una grande scrittura del film danese che la Breillat fa propria applicandola ad un altro tipo di donna non predatrice ma che desidera un adolescente che la insegue, mettendo in luce la differenza con l’altra Anne,  tra cedere a qualcosa di pulsante o accettare; tutto è specchio ma sono universi opposti in cui si svolge la passione, la viltà e la menzogna. Le modalità diverse di costruire le riprese diventano per i due film il luogo in cui ci si cimenta con il ‘cinema’ e ci si impossessa del proprio essere autore; in ogni scena ciascuna emozionalità diversa che sigla la firma registica, si palesa. Quando il padre chiede a Théo di ammettere di aver mentito riguardo al fatto di essere andato a letto con Anne, Théo è indignato, non perché abbia bisogno che suo padre sappia che è onesto, come nel film danese, ma perché Anne vuole che lo neghi, vuole che tutto sia nascosto, come dicevo in apertura, pulito, mostrabile, accettato. Si potrebbe dire un film francese stranamente silente, scomodo certamente ma senza un colpo dirompente e conflittuale, anche le notazioni critiche sulla borghesia più chabroliane da provincia che si innestano in una storia in cui i ruoli di vittima e carnefice non sono ineccepibili. Abuso o non della predatrice narcisista danese? Questa risposta è impegnativa, ancor di più se c’è nel mezzo il fuoco dell’amore, dei sentimenti, della verità, della passione dell’altra Anne quando rientra in camera da letto e si lascia abbracciare dal marito nella camera buia dopo aver donatoaccolto ancora una volta adi Theo il seme del sesso nel giardino davanti casa nell’oscurità, come ultimo rigurgito sul quale forse...  tornerà a riflettere?





 


 





Degli altri film elencati in questa scelta iniziale  scriverò a breve le riflessioni che mancano.

 

 

 

 

 

 

about dry grasses

blackbird blackbird blackberry

passages

fallen leaves

my first film

poor things

trenque lauquen

cerrar los ojos

totem

sparta

roter himmel

una sterminata domenica

lété dernier

n'attendez pas trop de la fin du monde

...un passo indietro prima di continuare...

riporterò in questa pagina tutte le riflessioni di cui ho scritto nei quattro libri editati e nel sito precedente, senza alcuna correzione o modifica, cronologicamente per come sono nate e pubblicate tra giugno duemilaventuno e gennaio duemilaventiquattro...un modo per riconnettere le scelte del direcinema per come volevo fosse e quello che continuerò a cercare per scriverne ancora dicendocinema...

Druk di Thomas Vinterberg Danimarca Anno 2020 Genere Drammatico Durata 116’ Interpreti Mads Mikkelsen, Thomas Bo Larsen, Magnus Millang, Lars Ranthe, Maria BonneviePremessa Sceneggiatura Thomas Vinterberg, Tobias Lindholm Fotografia Sturla Brandth Grøvlen Montaggio Janus Billeskov, Jansen, Anne Østerud Costumi Ellen Lens,Manon Rasmussen

Quattro amici insegnanti iniziano un esperimento sociale basandosi sulla convinzione che il corpo umano nasca con un livello di alcol troppo basso, quindi intenzionati a mantenere sempre un tasso 0,05% di bac, spregiudicatamente allegri ma non ubriachi. Stabiliscono le regole. Possono bere solo durante l'orario di lavoro. L'idea è che l’alcol rilasci lo stress e la tensione in modi che nient'altro può fare. A vari livelli, tutti e quattro gli uomini stanno attraversando una crisi di mezza età, insoddisfatti del lavoro, famiglia e della società. E le cose cambiano. Ciascuno ritrova vitalità e nuovi spunti insegnando storia, musica o filosofia. Allora alzano il tiro, sempre di più fino ad arrivare all’assenzio, ma sanno che quasi sempre è una cattiva idea e allora prima dell’alcolismo bisogna fermarsi. Tra la citazione iniziale “Cosa è la giovinezza? Un sogno. Cos’è l’amore? Il contenuto del sogno.”  e lo studente che fa un esame  sull'ansia e sull'accettazione della fallibilità e del fallimento, con la filosofia kierkegaardiana  si snoda Un altro giro (Another round) di Thomas Vinterberg . Un nuovo brusio della vita, nascosta o rifiutata, si agita per ciascuno dei protagonisti   accompagnati da un linguaggio visivo che si abbina sottilmente al viaggio dei personaggi studiati nella loro individualità (una per tutte: la prima “nuova e diversa” lezione di storia con i movimenti di macchina a mano ondeggianti). L'esperimento colpisce ciascuno dei quattro uomini in modo diverso e tutti sanno che una notte di ubriachezza giunge ad una mattina in cui bisogna fare i conti con gli errori e il tempo per correggili. Vinterberg evita tutti i cliché che l’argomento dispone anche grazie  agli attori  (tutti bravissimi) e al suo protagonista preferito Mikkelsen anche nell’ottimo “The Hunt” del regista. Realistici e presenti in un film che avrebbe potuto davvero subire stravaganti dirottamenti umoristici fino a giungere, letteralmente oscillando,  in una delle migliori scene finali di questi anni. La realizzazione del “sogno giovanile” e desiderio di una vita: ballare…e poi un volo con fermofotogramma stupefacente.

 

The father di Florian Zeller Nazioni UK Anno 2020 Genere Drammatico Durata 97’ Interpreti  Anthony Hopkins, Olivia Colman, Imogen Poots, Rufus Sewell, Olivia Williams Sceneggiatura Christopher Hampton, Florian Zeller Fotografia Ben Smithard Montaggio Yorgos Lamprinos Costumi  Anna Robbins Musica Ludovico Einaudi

 

Un orologio. Un dipinto. Una figlia. Un genero. Un pollo. Una assistente. Frammenti di conversazione. La vita che va in frantumi nella demenza di un ottantenne. Florian Zeller , autore della pièce rappresentata con grande successo ha adattato e diretto questo film dove ha trovato un superbo Hopkins e la eccellente Colman che gli hanno regalato la misura e il lampo nella maestrìa mutevole di ogni attimo, respiro, sguardo, lacrima permettendoci di sperimentare la confusione di una mente che si sfalda per un’impresa straordinaria che altrimenti non si sarebbe composta così   senza una sbavatura. Contraltare all’evanescenza dei ricordi di lui le persone care che cercano di calmare il suo temperamento instabile e organizzare i suoi ricordi confusi. E proprio tutto quanto sembra esserci e poi sfuggire offre ai personaggi di cambiare, andare e venire, assumere nomi e identità diverse ma sempre per quell’attimo-tempo reali e necessari. I giocatori cambiano, il disordine diventa caos nella testa di Hopkins, la sua frustrazione tangibile, il luogo chiuso della casa trasforma più volte qualche dettaglio, colore, mobilio andando verso l’end game. Passato e presente creano il liquido amniotico nel quale naviga il vero exploit tecnico di Hopkins in tutto il ventaglio di emozioni e sentimenti in cui ci trascina per strabiliarci. E voglio aggiungere proprio qui l’eccellenza della Colman, già vista e rivista dalla Favorita a Lobster a The Crown- e nel caso mi sfuggisse nelle prossime occasioni in Tirannosauro un film poco circuitato e visto di Considine del 2011 che consiglio di vedere- che nella durezza della fisicità e nell’amorevolezza filiale provata riesce con piccolissimi accenti, bocca, occhi, mani, postura a comunicarci la pazienza come l’abbandono davanti alla sabbia che le sfugge di mano, anche lei in una grande prova attoriale. I pezzi di vita quotidiana che sembrano appartenere ad una vita normale, l’orologio, la figlia che vorrebbe trasferirsi a Parigi, gli assistenti che dovrebbero aiutarlo mal sopportati, l’altra figlia molto amata che non vede da tempo, la giovane nuova assistente per la quale diventa galante e ballerino scherzoso, ma tutto questo si trasforma durante la storia in straziante evidenza della sua mente instabile e mutevole che può vedere anche la famiglia e gli affetti come estranei e minacciosi. Musiche di Einaudi poco invadenti come doveva essere. Voglio chiudere con una sequenza del film che mi ha commosso non per la situazione narrata ma per la perfezione di Hopkins. Il genero o presunto tale del momento seduto sul divano cerca di instaurare una conversazione sincera con lui e il loro futuro famigliare. Appollaiato sul bracciolo opposto Hopkins gli chiede dell’orologio che ha al polso, “se è suo, se l’ha comprato o regalato qualcuno, se glielo fa vedere” con una insistenza ritmica e ripetuta che va oltre tutte le altre interrogazioni e l’interesse ad esse e tutta la sequenza  in un campo medio farebbe dire ad uno spettatore esterno, se assistesse ipoteticamente ad una scena reale come questa, ma Hopkins è scemo?...

 

Nomadland di Chloé Zhao Nazioni USA Anno 2020 Genere Drammatico Durata 108’ Interpreti Interpreti Frances McDormand, David Strathairn, Linda May, Charlene Swankie, Derrick Janis Sceneggiatura Chloé Zhao, Jessica Bruder autrice novella  Fotografia Joshua James Richards Montaggio Chloé Zhao Costumi Hannah Peterson Musica Ludovico Einaudi

Avrei potuto non dire qualcosa su questo film se avessi letto o sentito una voce fuori dal coro, in una percentuale anche molto minoritaria  ma dissenziente nel giudizio, infatti penso che sia solo un buon film lontano dagli altari dove è stato innalzato tra leoni e statuette (questo a seguire non c’entra con il cinema ma lo dico egualmente, palesemente culturalgeopoliticamente sospinta, consentite la parola, dall’appropriazione tutelante di una american-cinese). Allora siccome non sono un critico posso divergere non avendo conventicole da accudire né nazioni e ideologie da affiancare. Faccio una premessa per fugare ogni dubbio che non ho una prevenuta posizione sulla regista dicendo che il suo “The rider-Il sogno di un cow boy” del 2017 mi piacque, con capacità stilistica racconta una storia autobiografica immersa consapevolmente con tutti i limiti, i fallimenti del protagonista in un western iconico. E di quel film rimane in questo il respiro dei grandi panorami americani raccontati in delicate atmosfere di luce dove invece dei cavalli ci sono camper e roulotte. Anche qui una storia alle spalle di sconfitta, Frances Mc Dormand ha perduto il marito e ha lasciato il piccolo paese in Nevada dove vivevano ma dove probabilmente si poteva anche essere felici se ci si accompagnava, non da soli e senza lavoro. Allora senza casa si sposta con il suo van cercando lavoro prima ad Amazon e altrove come dipendente stagionale. In questo peregrinare vivendo nel suo furgone si lascia coinvolgere da un gruppo di nomadi moderni, persone che a volte formano comunità improvvisate, che durano il tempo di un giorno o una notte, poi si riparte insieme o separatamente con l’auspicio “ci ritroviamo sulla strada” e lei finisce inevitabilmente sempre da sola, attraversando il paesaggio americano. Questa la storia ripresa da un libro– direi inchiesta di Jessica  Bruder  su una “sottocultura” di questi nomadi moderni che squarciano il velo illusorio del “sogno americano” scoprendo sicuramente una realtà più solidale ma rimanendo ai margini della conflittualità sociale. Allora mi sono chiesto perché questo materiale che un agguerrito network avrebbe trattato con giusta perizia o che Gianfranco Rosi avrebbe forgiato come “Fuocoammare” 2016,  la Zhao ha intrapreso la strada della poeticità a mio avviso non riuscita; perché non basta immergersi nudi in un fiume o abbracciare un albero o saltare tra calanchi per liricizzare un personaggio, una situazione, una storia, o la tristezza, la solitudine di  Mc Dormand altrimenti cosa sono i dodici minuti di  “Rugen” 1929 o i trentatre di “Pour le mistral” 1966 entrambi di Ivens se non un verso di Rimbaud…e proprio questa forzatura poetica nasconde anche una parvenza di verità che il tema obbligava a tracciare. Devo chiudere obbligatoriamente con lei che considero con la Colman tra le migliori attrici al mondo (un post o l’altro dirò anche delle altre e sono poche) ma lontana da Mildred di “Tre manifesti a Ebbing, Missouri” 2017 e ancor di più da Marge di “Fargo” 1966 perché spaesata a gestire la naturalezza, e mi direte pazzo, per colpa anch’essa della liricità fasulla. Anche qui musiche  di Einaudi elegiache-bucoliche.

 

I’m thinking of ending things di Charlie Kaufman Nazioni USA Genere Drammatico Durata 134’ Interpreti Anno 2020 Interpreti Jessie Buckley, Jesse Plemons, Toni Colette, David Thewlis Sceneggiatura Charlie Kaufman, Iain Reid Fotografia Lukasz Zal  Montaggio Robert Frazen Costumi Melissa Toth Musica  Jay Wadley

 

Parlare di una sceneggiatura-regia di Charlie Kaufman è sempre molto complesso perché alla fine ti accorgi di aver perso dei rivoli significativi nascosti tra i solchi di un cervello molteplice e multiforme, quindi cercherò di tirare bene le fila dei concetti e immagini di questo film amabile o detestabile. Per chi non lo conoscesse sceneggiatore di “Essere John Malkovich”, “Il ladro di orchideee”, “Se mi lasci ti cancello”, “Human Nature” e “Confessioni di una mente pericolosa” e di solo tre regie “Synecdoche,New York”, “Anomalisa” (coadiuvato da Duke Johnson per questo film di animazione) e quello sul quale dirò al rigo successivo. Una giovane donna che ha conosciuto poche settimane prima il suo uomo del quale apprezza le qualità che lo definiscono e insieme al quale stanno per intraprendere un “viaggio” per far visita nella fattoria di campagna ai genitori di lui; se non fosse che un pensiero ossessivo si insinua nella sua mente “sto pensando di finirla qui”. Se poi il suo uomo Jake avverte i pensieri di lei e il suo nome Lucy muta in altri diversi e il suo cellulare riporta chiamate con il proprio nome attribuitole al momento alle quali non risponde e avessimo letto che nelle “persone” che identificano i personaggi  lei è “giovane donna” capiamo subito di trovarci in un vortice complicato nel quale lei è la proiezione di Jake, così come lo era la donna ideale e perfetta che il protagonista cerca in “Anomalisa”. E l’auto si muove verso campagne disabitate e con la neve incessante che prelude ad una bufera, all’interno di essa come in un’accademia greca discutono di cinema, pittura, letteratura, biologia (così come nel tentativo di viaggio che faranno per tornare) parlando di Cassavetes-Rowlands-“Una moglie” come di Foster Wallace e “le cose divertenti che non farà mai più” o di luce e colori o di gangli encefalospinali o di poesie di cui anche lei è autrice con “Ossa di cane” in cui l’avversione per il ritorno a casa è enunciata da versi angoscianti e orribili al contrario di come invece appare ma  indica lo stato d’animo di entrambi, invischiati in un’impossibilità a vivere e quindi destinati all’infelicità, e sempre interpuntato  da quel “sto pensando di finirla qui. Alla fattoria si trova sempre più impantanata in un vortice di angosciante estraneità, in cui l’unico desiderio diviene tornare a casa (al contrario di quanto dicevano i suoi versi). Qui i continui balzi temporali con i genitori di Jake che invecchiano, muoiono e ringiovaniscono non sono altro che l’angoscia del protagonista per il tempo che passa e lei mutevolmente acquista la forma di compagna ideale che sia la cameriera del finto film di Zemeckis o accudente gli anziani genitori. In tutto il film quasi s’insinuano come interfaccia le sequenze di un vecchio bidello di scuola durante le sue azioni quotidiane (pulire, guidare, mangiare guardare il finto film, seguire le prove del musical Oklahoma). Insomma il lungo viaggio onirico continua a snodarsi nella mente che cerca un futuro migliore ma è vincolato dall’inevitabilità e paura della morte e che trasforma “la vita” che vediamo e viviamo con la sua percezione. La memoria, la solitudine, la ricerca della condizione umana, cari al regista, si manifestano visivamente e  concettualmente ovunque, come nei suoi due precedenti film. E questo permette di giungere alla vera identità di Jake, studente mediocre che osserva e spia da lontano(il bidello) quello che avrebbe voluto ottenere dalla vita e la sua avversione per lo scantinato di casa permetteranno a lei di scoprire il segreto che si nasconde: nella lavatrice le divise con la sigla R che porta il bidello nel finale, così come è di Jake-anziano-bidello la voce che chiede aiuto con l’unica telefonata a cui lei risponde. E nella circolarità continua troveremo anche il poema Ossa di cane nella camera di Jake alla fattoria a mostrare ciò che potevamo essere, siamo stati o non saremo mai. E poi il rientro agognato. Sulla strada si fermeranno alla paradossale gelateria, nel niente e nella bufera che imperversa, e anche qui una commessa sarà per lei una proiezione del pericolo, poi Jake decide di fermarsi al suo vecchio liceo, dove ricorda esserci un cassonetto per buttare i resti e          contenitori dei gelati (il cassonetto ne è pieno). Un bacio alla sua ragazza e la sensazione di essere osservato lo porta a scendere dalla macchina . Lei infreddolita e impaurita  lo va a cercare dentro il liceo, ma la prima persona che incontra è il bidello che si commuove al cospetto dell’amore agognato di un tempo scolastico. Si abbracciano.  Jake compare. Vengono raggiunti da due danzatori che li rappresentano. Il ballo catartico dell’amore  si infrange contro la realtà e il giovane soccombe al vecchio ( il bidello) che si assoggetta all’inesistenza del sogno. Il bidello-Jake sta per tornare a casa con il suo furgone ma fremiti mortali pervadono il corpo. Nudo e seguendo un maiale (se ne è parlato alla fattoria), si ritrova in un teatro in procinto di ricevere il premio (effige del Nobel sulla medaglia) in platea  tutti i personaggi del film invecchiati con un trucco palesemente teatrale, un breve e intenso discorso dedicato a lei ragione del successo, ma ci troviamo nella rappresentazione di Oklahoma con la vecchia cameretta da bambino dove Jake canta l’illusione di un amore. Applausi. Il film  chiude il suo ultimo fotogramma in plein air luminosissimo e nitido con la macchina di Jake fuori dal liceo sepolta dalla neve forse mortale.

 

The woman in the window di Joe Wright Nazioni USA Anno 2021 Genere DrammaticoThriller Durata 100’ Interpreti Amy Adams, Julianne Moore, Gay Oldman, Wyatt Russell, Anthony Mackie, Fred Hechinger Sceneggiatura Tracy Letts, A.J. Finn autore delle novella Fotografia Bruno Delbonnel MontaggioValerio Bonelli Costumi Albert Wolsky  Musica Danny Elfman

 

Film atteso e sempre rimandato per crisi pandemica approdato ora sulla piattaforma Netflix. Atteso perché prometteva un thriller, un ottimo cast e la eventuale  “prova” autoriale, per me, del sopravvalutato regista inglese. Un gran piano sequenza in “Espiazione” e basta; accademica-ennesima rilettura della Austen in “Orgoglio e pregiudizio”; la nota positiva di un adattamento moderno e teatrale-cinematografico di Tom Stoppard in “Anna Karenina”; forzata rottura mal riuscita con la classicità di un personaggio in “Pan”; risultato altalenante tra fiaba e thriller in “Hanna”; e per ultimo, il migliore, del Churcill perfetto di Oldman che riconduce l’epicità di eventi quasi a essere un kammerspiel in “L’ora più buia”. Quindi provare per credere. Ho visto e devo annoverare anche questo ultimo sforzo nella mediocrità, perché? La storia di una donna agorafobica che sciattamente (lontani i ricordi della sensualità seducente della bravissima Adams di “Animali notturni” di Tom Ford o “American Hustle” di David O. Russell o misterica linguista di “Arrival” di Denis Villeneuve o la tenace pittrice di “Big Eyes” di Tim Burton per limitarmi all’ultimo lustro di un’attrice tra quelle che prediligo) trascorre il suo tempo tra letto, sedute terapeutiche, telefonate “mentali” di marito e figlia, instabilità attraverso tremori di panico e risatine maniacali, abuso di sperimentali medicine come solo gli americani sanno fare, un ambiguo inquilino da sottoscala, cibo consegnato a domicilio e vecchi bei film, annaffiando tutto con ottimo vino rosso, in una casa newyorkese troppo studiata per colori, mobilio e struttura (le scale sono tagliate di una balaustra solo per consentire una ripresa-Hitchcock impallidirebbe). E’ anch’ella una terapeuta infantile, depressa e ironica, e questa rispondenza per i malesseri giovanili la inoltrerà nella spirale del voyeurismo per i nuovi vicini al di là della strada e la loro storia enigmatica. Di più della trama è inutile dire per non tradire sorprese, nel caso ce ne fossero, che va ad un finale senza rantoli e tensione ma solo più orrifico. Per non parlare dei tre minuti finali dopo un cartello di “nove mesi dopo” (come quelli della settimana, a che servono??) regalato inutilmente alla guarigione con happy end invece già incluso nell’ultimo dialogo con un benevolo poliziotto complice-scagionante e l’assenso-sorriso tumefatto della Adams-i maestri così avrebbero fatto. Riprese in diottrie focali divise (con la televisione sullo sfondo e primo piano della Adams) di taglio depalmaniano e scale hitchcockiane, tocchi visivi di tende e sgabelli-trespolo o di lenti fotografiche non bastano a fare cinema. Gli attori per chiudere: Adams attenta, precisa; Oldman insignificante; Moore isterica.

 

Mank di David Fincher Nazioni USA Anno 2020 Genere Drammatico Durata 131’ Interpreti Gary Oldman,Lily Collins, Amanda Seyfried. CTom Burke, Charles Danve,Arliss Howard Sceneggiatura Jack Fincher Fotografia Erik Messerschmidt Montaggio Kirk Baxter Costumi Trish Summerville MusicaTrent Reznor, Atticus Ross

 

Chi era costui? Herman Mankiewicz detto Mank, fratello del più noto Joseph regista, (da “Eva contro Eva”  al mai menzionato bel western “Uomini e cobra” per citarne due di tanti buoni film) commediografo, sceneggiatore, giornalista, critico teatrale morto a soli cinquantasei anni e protagonista di un clamoroso furto creativo – e mi dispiace dirlo compiuto da un mito della storia del cinema, Orson Welles. Vorrei cominciare a dire di questo ultimo film del virtuoso Fincher notando che è il suo terzo biopic (“ The social network” e “Zodiac”) , viene partorito sette anni dopo il suo manipolatorio “Gone girl” e di primaria importanza per l’ordito del film la scelta di un bianco e nero meraviglioso, manipolato digitalmente, attraverso i fotogrammi che diventano visione di come erano le pellicole degli anni ‘30-‘40 ma lontano per brio  e formato da quello di Gregg Toland, famoso quanto Welles per il film di cui si tratta, o di quello cupo di “La morte corre sul fiume” scelto per citare un altro capolavoro della storia del cinema. Quindi si narra di chi ha scritto il film rivoluzionario del 1941 “Citizen Kane”. Con Gary  Oldman, superlativo, nel ruolo del protagonista e un superbo cast di supporto, Fincher ha creato un film   provocatorio, acuto, spietato ma divertente e anche  volutamente ,a mio avviso, esasperante. Non c’è nessuna nostalgia per la Hollywood di allora, il suo cinema, la sua gente, che risulta traguardata nella infelicità senza alcuno orgoglio di appartenenza ad esso se non in chi falsamente considera “famiglia” coloro i quali lavorano per lui, il produttore Mayer che infligge licenziamenti e riduzioni di stipendi. Fincher discorre cinematograficamente con sintesi e rapidità di movimenti di macchina in molte occasioni per narrare il “luogo”, “il modo” di quel cinema tra carrelli, sipari, studi e cartelli…e del suo protagonista non racconta ascesa e caduta perché lui è già “loser” prima di cominciare, ubriaco e sorretto. Mankiewicz costretto a letto in un ranch nel deserto, detta quello che sarebbe diventato "Citizen Kane" a una donna inglese molto sentimentale,  una governante tedesca, e un sorvegliante, essi sono i custodi dello scrittore durante il suo processo creativo , con il compito di mantenere asciutto l’alcolista (non conosco le fonti di Fincher per dire e narrare che Welles, ventiquattrenne, abbia usato anche farmaci per controllare il suo stato di vitalità) ma la finzione in fondo deraglia facilmente connotati reali. La vita di Mankiewicz si intreccia con quella di Mayer, come del fratello, o di un marcio Hearst e la sua amante Marion, con cui intrattiene un rapporto fiduciario e amorevole che potrebbe anche essere altro senza mai declassare l’amore e la stima per la moglie; assiste a campagne intimidatorie verso scrittori dalle idee socialiste che minacciavano il capitalismo hollywoodiano o a campagne elettorali manipolatorie. Resti del passato e sforzi creativi di Mankiewicz, che alla fine vengono migliorati tramite una scatola di contrabbando di alcol   e Mank riconoscerà che quello terminato è il suo migliore lavoro, senza dare ascolto ai consigli di chi vorrebbe convincerlo a desistere da quella follia e senza alcun timore di quanto potrà rovinarlo Hearst, lui lo è già e vuole che si riconosca il suo talento il che lo condurrà all’incontro-scontro con Welles, che lo voleva ghost writer,  sul diritto al credito del film che si farà…Un’architettura complessa fatta di incastri e rimandi e vettori diversi che deve far riflettere sul cinema e il suo immaginario in termini estetici, culturali e sulla battuta che Mayer dice ai fratelli  “ E’ un’attività in cui l’acquirente con i soldi ottiene solo un ricordo. Ciò che compra appartiene ancora a chi l’ha venduto. Questa è la vera magia del cinema” e dunque sul mondo dello spettacolo.

 

Minari di Lee Isaac Chung Nazioni USA Anno 2020 Genere Drammatico Durata 115’ Interpreti Steven Yeun, Ye-ri Han, Yoon Yeo-Jeong, Alan Kim, Will Patton, Noel Cho Sceneggiatura Lee Isaac Chung Fotografia Lachlan Milne Montaggio Harry Yoon Costumi Susanna Song Musica Emile Mosseri

La famiglia americana di origine coreana si trasferisce dalla California in Arkansas negli anni ’80 in una casa-roulotte in mezzo ad un grande campo che il padre vuole coltivare con prodotti tipici coreani e vuole fare tutto da solo, senza aiuti e consigli. All’entusiasmo del padre si contrappone l’ansia della moglie per uno dei due figli che ha problemi cardiaci e la delusione di essere in mezzo al nulla. Per mantenersi e portare avanti il progetto lavorano anche in un’azienda in cui controllano il sesso dei pulcini. Situazione economicamente difficile e faticosa quindi litigano spesso e allora per farsi aiutare fanno venire dalla Corea la nonna, madre di lei, che il bambino non ha mai conosciuto e per la quale inizialmente prova antipatia perché non è proprio la “tipica” nonna ma lei si farà voler bene adattandosi alla nuova vita americana e creando un legame con i nipoti e l’intera famiglia. Minari (è una pianta acquatica coreana tra il prezzemolo e il sedano e condisce molte pietanze), è un piccolo film americano indipendente presentato al Sundance film festival  riscuotendo subito successo di pubblico, premi e nomination per gli oscar, che  racconta semplicemente (come forse solo gli orientali sanno fare ) ma in modo intimamente nobile, a volte divertito e commosso, le vicende di una famiglia di immigrati coreani sugli altopiani dell’Arkansas . Minari registra attraverso le vite e i rapporti dei protagonisti il bisogno di vicinanza e tolleranza concentrandosi più sui sogni e gli incubi individuali e nella completezza della famiglia che della durezza di scontro socioculturale dell’immigrazione-parentesi obbligatoria di raffronto sulla mia riflessione di “Nomadland”, quello doveva occuparsi di profondità oscure ed economiche della marginalità e precariato sociale invece di essere liricamente fasullo-. Ne viene fuori un ritratto radioso dell’esistenza che nella sua semplicità emoziona così come diventa partecipativamente faticoso descrivendo il lavoro duro di una calda giornata. Visivamente e narrativamente curato, delicato e calcolato con precisione il film si muove in molteplici eventi correlati e disgiunti e la regia con accortezza umorale ci guida dentro le vite di personaggi uniti per sopravvivere. Essendo in parte una storia autobiografica (il regista Lee Chung figlio di immigrati coreani stabilitisi in Arkansas) si spiega il processo di valutazione e gratitudine che mostra affetto e onestà per e nel  ” sogno americano” di questa famiglia. Anche quando l’obbligatorietà degli eventi impone l’arrivo della nonna, furba, maleducata ma incredibilmente amorevole, la stabilità delle loro relazioni è messa ancor più duramente alla prova in questa nuova e complicata vita ma la capacità di recupero e il valore di famiglia e casa ripristinano l’equilibrio intaccato. Personaggi e interpreti tutti in ruolo e con maestria ma una notazione a parte per la nonna di Yoon Yeo-jeong (meritatamente oscar per attrice non protagonista) che i frequentatori di cinema orientale come me conoscono bene per essere stata diretta in più occasioni da registi come Im Sang-soo (“La moglie dell’avvocato”2003, “The housemaid” 2010) e Hong sang soo (“Hahaha” 2010, “In another country”2012 qui con la Huppert, “La collina della libertà” 2014) e altri inediti in Italia.

 

The vast of night di Andrew Patterson Nazioni USA Anno 2019 Genere Fantascientico Durata 90’ Interpreti Sierra McCormick, Jake Horowitz, Gail Cronauer, Cheyenne Barton, Gregory Peyton Sceneggiatura Andrew Patterson, Craig W. Sanger Fotografia M.I. Littin-Menz Montaggio Andrew Patterson Costumi Jamie Reed Musica Erick Alexander, Jared Bulmer

 

"C'è qualcosa nel cielo." Alla fine degli anni '50, una giovane centralinista e un deejay-commentatore radiofonico s’imbattono in una frequenza audio inquietante che interferisce sui segnali radio e  altera   drasticamente la più che normale esistenza della loro piccola città nel New Mexico (non a caso-Roswell e zona 51). Unici al proprio posto di lavoro mentre la quasi totalità degli abitanti è impegnata a seguire un incontro di basket nella palestra della scuola. Il duo si imbarca in una caccia al segnale e il suo “senso” attraverso telefonate che i pochi altri hanno avvertito o chi dice “di sapere” cosa sia avendo vissuto un’esperienza simile da militare o una donna che vuole rivelare il mistero di quel segnale che conosce perché vissuto sulla sua pelle e del figlio o di bobine inviate ad un concittadino ormai morto ma che riescono a recuperare o una coppia che ha visto qualcosa in cielo, in una corsa a più riprese piena di suspense , alla quale si aggiunge un bambino rimasto solo in casa che la centralinista prende con se, verso il bosco e il finale… Raccontata così è la trama scintillante di un film retrò di fantascienza e ufo, un bmovie da manuale anni ’50, ma non è così. E’ un film indie opera prima ( anche sceneggiatore, montatore e produttore a bassissimo costo) di un regista che ha girato una pellicola che brilla per fascino e originalità con tutta l’ansia e lo stupore che infonde guardando lo scorrere delle sequenze. Un thriller colmo d’inventiva e carisma senza un sol trucco, con tanti dialoghi arguti e serrati (sequenza d’apertura in cui parlano senza interruzione per dieci minuti velocemente e sovrapponendosi, attraversando palestra, parcheggio, le strade del paese vuoto fino al centralino), opera quasi straordinaria che riesce ad essere inquietante ed eccentrica sul come e non solo su cosa. Il film comincia come se uscisse dal tubo catodico di un televisore in bianco e nero che sta trasmettendo un episodio di una serie come “Ai confini della realtà” in modo da porre subito a distanza di sguardo e osservazione senza la significanza che deve possedere un primo piano. Stranezza e mistero. E poi il virtuosismo tecnico sorprendente: una carrellata attraverso l'intera città, la strada, un angolo, sul prato, la centrale elettrica, il parcheggio della palestra, nella palestra affollata, sul campo di gioco, e poi di nuovo fuori. Così come il long take (anch’essa di dieci minuti) complicato in cui lei al centralino, risponde alle chiamate, effettua chiamate, collega e rimuove i cavi, con il crescente senso di allarme per il fatto che qualcosa non va là fuori nella vasta notte. Persino un passaggio su uno sfondo nero che si affida solo al suono. E man mano ci s’inoltra nella storia, tra inquietudine e stranezza, tra esercizio di stile e ironia aumenta l’intimità e il calore per i protagonisti. La mano sicura di Patterson ci guida non tanto verso la finalità della storia quanto il viaggio per raggiungerla attraverso i punti di vista. Attori perfetti.

 

Never rarely sometimes always  di Eliza Hittman  Nazioni USA Anno 2020 Genere Drammatico Durata 101’ Interpreti Sidney Flanagan, Talia Ryder, Ryan Eggold, Sharon Von Etten, Thèodore Pellerin Sceneggiatura Eliza Hittman Fotografia Hélène Louvart Montaggio Scott Cummings Costumi Olga Mill Musica Julia Holter

 

Questo bel indie americano merita il dire e la visione (terzo film della regista che non conoscevo prima, quindi cercherò di colmare il vuoto della sua nascita filmica con “It felt like love” del 2013) gratifica, ci rende accorti a sentire silenzi e sguardi, a considerare spiando la complicità tra amiche, a porci dentro l’animo di Autumn una diciassettenne che ha deciso di abortire. Non può farlo nella piccola cittadina della Pennsylvania perché in quello stato i genitori devono dare il consenso e alla sua prima visita al consultorio dove le viene fatto il test di gravidanza  le viene anche mostrato un video antiabortista. Tenta anche di procurarsi un aborto spontaneo con medicinali e pugni sulla pancia ma non rimane che andare in autobus a New York per risolvere il problema, aiutata e accompagnata dalla cugina e amica. Troppo grande la città che le accoglie, sono spaesate, non sanno dove andare trascinandosi la pesante valigia che si sono portate dietro - lo dico senza sminuire il valore che accredito al film ma questa valigia “metaforica” (se lo fosse) è l’unica nota stonata della narrazione che naturalisticamente procede senza intoppi o lungaggini, non essendo un film né ideologico né socio culturale  - e incontri o  imprevisti inaspettati che accadono e devono essere risolti e sempre attraverso gesti, sguardi, silenzi e comportamenti a cui non servono le parole; importante è ciò che fanno come i mignoli stretti delle loro mani all’opposto di una colonna mentre Skylar bacia un ragazzo incontrato in viaggio al quale dovrà chiedere i soldi per tornare a casa quando tutto sarà finito. Intensità e dolore. La MDP sempre molto vicina al volto di Autumn: la vera storia da guardare è lì nel suo viso , in ciò che pensa e sente, impassibile e muto dietro il quale c’è solitudine, sofferenza e dolore che tra un momento verrà fuori anche se meravigliosamente trattenuto ma che travolge. Deve risponde a una serie di domande poste dalla consulente psicologica prima dell’intervento (appunto le quattro possibili risposte del titolo, già intrigante da solo, leggendolo ho pensato che avrei voluto pensarlo per qualcosa da scrivere) e allora le emozioni riemergono raccontando in parte la vita vissuta e nascosta, come il padre del bambino mai menzionato…Bravissime le attrici che reggono in equilibrio ogni trama ed emozione. A margine la nota per un film molto vicino a questo, bello, di alcuni anni addietro del rumeno Cristian Mungiu “4 mesi, 3 settimane e 2 giorni” che si svolge però in un paese dove l’aborto è illegale anche se la politica americana trumpiana ha fatto scempio del “corpo” delle donne e avrebbe anche vietato l’aborto se avesse potuto…ma questa è un’altra cattiva storia finita.

It felt like love di Eliza Hittman Nazioni Usa Anno 2013 Genere Drammatico Durata 82’ Interpreti Gina Piersanti, Richie Folio, Giovanna Salimeni,Jesse Cordasco, Andrew McCord, Case Prime Sceneggiatura Eliza Hittman Fotografia Sean Porter Montaggio Scott Cummings, Carlos Marques-Marcet Costumi Sarah Maiorino

 

Avendo citato questo film all’interno della riflessione di “Mai raramente a volte sempre” ripromettendomi di vederlo e avendolo fatto mi concedo solo quattro righe. Ci sono i prodromi di quanto verrà raccontato da questa regista molto interessante nel suo ultimo film (il film di mezzo “Beach rats” 2017, lo vedrò). Molti contatti evidenti che evidenziano la necessità di affrontare i temi compiutamente: amicizia femminile, la giovane età, qui la sessualità da scoprire lì l’aborto, la bravura di una quindicenne Gina Piersanti come per Sidney Flinigan, la MDP nelle inquadrature e le sequenze sempre addosso e dentro la protagonista, i corpi, i dettagli, pezzi di visione, e la stessa volontà di renderci partecipi di guardare, di assistere gli eventi, richiesta con il suo sguardo di biacca all’inizio e alla fine davanti al rumore del mare.

 

Histoire(s) du cinema di Jean Luc Godard  Nazioni Francia Anno  1988-1998 Genere Documentario Durata 266’ Interpreti Jean-Luc Godard, Alain Cuny, Julie Delpy, Sabine Azéma, Serge Daney, Juliette Biniche Sceneggiatura e Montaggio Jean-Luc Godard, otto capitoli

1 Capitolo: Tutte le storie 1988

2 Capitolo: Una solo storia 1989

3 Capitolo: Solo il cinema 1997

4 Capitolo: Bellezza fatale 1998

5 Capitolo: La moneta dell'assoluto 1998

6 Capitolo: Una nuova ondata 1998

7 Capitolo: Il controllo dell'universo 1998

8 Capitolo: I segni in mezzo a noi 1998

Opera complessa, articolata, riflessiva e totale. Montagna (sacra), storia del cinema. Poesia visiva che mescola  citazioni, estratti, suoni, musica, commenti, parole…"Il cinema sostituisce al nostro sguardo un mondo che si accorda con i nostri desideri", una citazione di Bazin in apertura che sembra rivelare tutta la magia ma anche tutta la superficialità del cinema rispetto alla "vita reale". E indaga la guerra e il cinema e lo strazio e la morte e il silenzio o la “moralità della carrellata” di “Kapò” cara ai Cahiers. E poi i produttori e la televisione e il cinema sovietico e quello americano “amore e morte” “una donna e una pistola” che lui sintetizza nelle prime sequenze del meraviglioso  “A bout de souffle”. E poi di letteratura e poesia -Baudelaire e Proust- e di cinema e infinite corrispondenze e di bellezza filmata dagli uomini, bellezza che consente di sfuggire alla solitudine e all’angoscia (testo letto da Sabine Azéma) e di cinema come mistero con Daney (famoso critico dei Cahiers) a fare da intervistatore-catalizzatore. E poi si lascia andare emotivamente alle immagini (monta “Un re a New York” di Chaplin su un film porno). E poi i quadri sostituiscono le immagini. E poi paragoni tra cinema e storia, tra cinema e morte. E poi l’orrore (documentari) della guerra, dei morti, degli ebrei deportati, delle torture, gli “Ucelli” di Hitchcock (bambini attaccati) in parallelo con gli aerei e i bombardamenti. E poi il dito accusatorio contro la televisione. E poi il cinema e gli attori collaborazionisti, non esisteva un cinema di resistenza (escludendo Bresson). E poi sugli unici veri combattenti della Resistenza secondo Godard, gli italiani, “Roma Città Aperta” in testa (Rossellini suo grande amico stimato) le grandi figure del cinema italiano (Fellini, Pasolini, Visconti, De Sica, Rossellini) in una vibrante dichiarazione d'amore. E poi il periodo “critico” dei Cahiers, di Truffaut e su tutti Langlois (cineteca di Francia) che li ha traghettati verso opere a cui gli iniziati potevano accedere e sulle quali hanno costruito il “nuovo cinema” . E poi di questo periodo  Truffaut (evocazione fraterna, con la luminosa inquadratura itinerante dei “400 colpi”, o la voce maliziosa di Jeanne Moreau), un po' di Jean Rouch, un po' di Duras ma preferisce tornare ancora e ancora dai predecessori, quelli che hanno segnato il suo "ingresso nel cinema", Langlois, Hitchcock (venerato, capace di fare un panino, un bicchiere di latte, un mulino a vento, una chiave più significativa e più memorabile di tutte le storie, ciò per cui le forme diventano stile), Renoir, Chaplin e altri. E poi un montaggio delle sue opere (“Alphaville” “For ever Mozart” “Passione”) e poi il colpo di genio tra Hitler alla sua finestra e James Stewart che lo guardava nella finestra sul cortile. E poi anche molto oscuro per chiunque, decifrazioni, decodificazioni di immagini e collegamenti , associazioni di idee che conoscono solo la sua testa. E poi vecchi film in un crepuscolo solitario e amaro che chiude magnificamente tutto. Dicevo un film totale nel quale bisogna immergersi per guardare e ascoltare, lasciarsi prendere dal fluire dei colori o dei neri o solo dalle ombre perché se qualcuno vuole conoscere il cinema come vasto universo e l’intelligenza di quest’uomo, come cinefilo deve essere coinvolto da questo film che resterà nella storia di cui parla. Cinema.Cinema.Cinema.E poi…e poi…e poi…e poi JLG.

 

The wild bunch di Sam Peckinpah Nazioni USA Anno 1969 Genere Western Durata 145’ Interpreti William Holden, Ernest Borgnine, Robert Ryan, Warren Oates, Edmond O’Brien, Jaime Sanchez, Ben Johnson,Emilio Fernandez, Alfonso Arau, Albert Dekker, Bo Hopkins Sceneggiatura  Walon Green,Sam Peckinpah, Roy N. Sickner Fotografia Lucien Ballard Montaggio Lou Lombardo Costumi James R. Silke Musica Jerry Fielding 

“Tutti sogniamo di tornare bambini anche i peggiori di noi, forse i peggiori più di tutti”. Pike Bishop e il Mucchio: uomini immutati, violenti, peccatori, in una terra che cambia, disperatamente fuori dal tempo ma che una redenzione desterà dal senso di colpa e il desiderio di morte che si portano dentro, da “loser”-cari a Sam- ad angeli della vendetta. Il crepuscolo degli dei violento e meditativo. Il wester è una cornice universale all’interno della quale si può commentare l’oggi. Nel Messico rivoluzionario il Mucchio rapina banche ( prima scena da nuovo linguaggio), inseguita da cacciatori di taglie guidati da un ex socio di Pike, rapina treni per le armi, fa saltare ponti, uccide e travolge, crudeltà, sadismo, sesso in un mondo perverso e si nasconde. Il mucchio nel   villaggio di Angelo (messicano del Mucchio poi catturato, torturato e ucciso perché ha rubato una cassa di armi da dare al suo popolo che combatte con Villa) scopre il mondo come dovrebbe essere come noi tutti speriamo disperatamente che sia;   contraltare la roccaforte di Mapache il generale che combatte contro la rivoluzione, un paesaggio lacerato e crudele di pistole, oro, liquore, torture. Un altro fallimento morale si dimostrerebbe intollerabile… la prostituta, la bottiglia e il bambino… l’epifania si compie in Bishop e diventa la marcia verso l’apocalisse. “Andiamo” “Perché no” quattro contro duecentocinquanta e diventa la marcia verso l’apocalisse. L’ideale, la speranza, la sola visione val bene il sacrificio delle loro vite. Nella morte il Mucchio trova il senso che lo aveva sempre eluso in vita. Peccatori crudeli in vita si redimono, quattro angeli vendicatori che lavano la depravazione in un bagno di sangue. Nell’apertura del film gli scorpioni e le formiche che si contorcono nell’arena infuocata sono il simbolo di un sinistro fatalismo che pervade l’aria, il crudele e autodistruttivo mondo in cui persino i bambini sono corrotti, un mondo privo di grazia. Nel finale quegli stessi-ma altri-bambini gambe penzoloni tra la ringhiera   assisteranno nell’arena, come per gli scorpioni,   all’arrivo del mucchio prima del massacro. Con le sue sei cineprese, i chilometri di pellicola e le centinaia di angolazioni con le quali girava le principali sparatorie (per essere alla fine quasi 4000 inquadrature) Peckinpah  voleva entrare dentro la violenza catturando seduzione e l’orrore “ coinvolgere il pubblico fino a calarlo dentro la sindrome della reazione prevedibile …per poi rivoltare le carte in modo che la violenza non abbia nulla di divertente e provochi solo un’ondata viscerale di disgusto…” ha detto il regista ma anche la sua grande poesia quando indugia sulla stanca schiena di Bishop e il suo cavallo che si trascinano stancamente tra le dune del deserto. Ogni frame di questo film è perfetto linguisticamente, narrativamente e ideologicamente volendo cancellare un mito del west che non esiste ( anche Ford lo aveva già fatto). Tutti da Scorsese, Milius, Lucas, Schrader, ecc e tutta la critica espressasi dalla prima visione del 1969 ad oggi lo considerano tra i pochi capolavori del cinema americano e mondiale, anche io.

 

Jeanne Dielman, 23 quai du commerce, 1080 Bruxelles di Chantal Akerman Nazioni Belgio Anno 1975 Genere Drammatico Durata 202’ Interpreti Delphine Seyrig, Jan Decorte, Henri Storck, Jacques Doniol Valcroze, Yves Bical Sceneggiatura Fotografia Montaggio Cosumi Musica

Microrealtà melodrammatica di essere una donna e le conseguenze nell’orrore della vita quotidiana. Allora  venticinquenne la regista belga entra nei minimi dettagli di una coreografia domestica, tre giorni -più di tre ore di durata- di una vedova di mezza età, suo figlio, la casa e le visite pomeridiane di uomini. Raffigurando l'ordinario allo stesso livello dello scioccante e il  coraggio e la semplicità di questa struttura narrativa che brilla di luce propria e unica. Le placide superfici si aprono alle tensioni che ribollono in una donna che compie con cura i suoi rituali quotidiani. Questa sensazione di soffocante domesticità sulla vita di una comune mamma casalinga che osserviamo e ci sembra che tutto sia come dovrebbe essere, invece il tempo diventa sempre più claustrofobico e soffocante. Le inquadrature obbediscono a una geometria   rigorosa, quasi sempre americana, la macchina da presa è posta sempre frontalmente rispetto le pareti che diventano cornice del fotogramma, alcune scene sono addirittura doppiate , tutto linguisticamente riferisce il principio della quotidianità. Tre momenti diversi che descrivono il corso del film. Iniziale : suona il campanello la donna apre la porta, entra un uomo, si chiudono nella stanzetta sul retro (la MDP rimane fuori) poi escono, l'uomo sussurra "ci vediamo la prossima settimana" e se ne va, ci sarà qualcosa di strano nella vita di questa donna.  Mediano: la donna interrompe bruscamente la sua serie di gesti, sembra esitare, accende e spegne la luce,  sembra smarrita portando un piatto da una stanza all'altra, e poi  tornando sui suoi passi. La vedi in macelleria, parlare con il figlio, entrare nella sua stanza con degli uomini, accorgersi di aver perso un bottone, preparare le polpette, andare all’ufficio postale che è chiuso ma rimani all’oscuro di quanto accade. Finale: la ripetitività diviene violenza fino al climax deflagrante del finale…Rigoroso studio di un personaggio come dello spazio e del tempo,  un  esperimento cinematografico sorprendente. Delphine Seyrig superlativa, come se vivesse a 23 quai du commerce, 1080 Bruxelles.

 

 

 

 

 

 

 

Paintings



svelamento



giri di terra e mare



il pianto delle donne che non piangono



senza



il rettangolo aureo e i sette peccati



autoritratto



fenditure di alterità incrinature di identità



pensiero irresoluto



caos armonico



dicotomia perversa



il possesso e l'anima



l'essere è e non può non essere



il silenzio



l'orgoglio la caduta la ribellione



non c'è nessun qualcosa senza il niente



sindrome astenica



pulsioni



le vite degli altri



seduzione virginale



un cuore così bianco



il nulla con esattezza



mitopoiesi



la vita e niente altro...il tempo



forme pure a priori



la caduta di Priapo scenari della differenza



apocalisse

Ho disegnato un quadrato, più o meno, e  l’ho segnato di una traccia nera e dentro questo ring ho richiuso un concetto, una parola, una visione, una immagine, una idea che volevo rappresentare, essa si è creata come in autonomia assemblando colore, foto, segni, tratti, grafemi in una anarchica colorazione materica di grumi e vuoti che esigeva la lettura concettuale della decostruzione della forma nell’informale e viceversa che si è fatta tutt’una legandosi nel riempimento del tappeto circoscritto…come se avessi grattato dal nero del quadrato di Malevič  per farne uscire l’embrione che custodiva, la creatività che in una unificazione di “forme compiute” liberasse l’anima visiva del concetto.Verità, libertà, vita, essere, in un abstract senza declinazione di appartenenza, fuori da luoghi e definizioni. Dacché penso, come per la scrittura, che non ho niente da dire ma solo voglia di dire qualcosa, ma diversa, non ho alcun messaggio né spiegazione da dare a queste opere, l’arte si svilisce nel bisogno di voler dire qualcosa o spiegarsi. Credo che l’arte, tutta, porti il suo significato solo nell’interazione con chi guarda o ascolta con il cuore e la mente attraverso gli occhi e l’udito in quel preciso momento che osserva o ascolta che sia un colore una forma tridimensionale un frame una sequenza o un accordo. L'arte "è forma significante" come dice Clive Bell, capace del potere di produrre un'emozione estetica in osservatori sensibili, è la combinazione di linee, forme e colori posti in certe relazioni tra loro, quale sia la rappresentazione è irrilevante.  

Lacerti di miei dipinti, la copertina e l'introduzione del catalogo per una mostra da fare...la preparazione di queste ventisei opere mi ha allontanato dal cinema che ho curato nelle pagine del sito web precedente e che oggi riprendo in mano ampliando i pensieri e le idee sull'arte non solo filmica.

 

 

 

 

Sovrapposizioni di una vita

Sono un napoletano settantaquattrenne che ha frequentato l’arte da alcuni punti di vista: la scrittura, la pittura, il teatro e il cinema. Ventenne mi piacevano gli strappi e il frottage di Rotella e la pop art di Rauscenberg, Warol, Paolozzi e Jasper Johns nonché Pablo Picasso e Georges Braque per la tecnica del papier collé, praticavo costantemente il collage  facendo confluire tecniche e materiali diversi. Con le opere di quel periodo mi presentai, per la prima volta nel millenovecentosessantanove, ad una cerchia engagé con una mostra in una piccola galleria napoletana mentre frequentavo architettura in quegli anni di lotte aspirando a diventare un urbanista. Cercavo di leggere in pittura, con i miei collage, quanto Pasolini diceva del corpo plebeo e sottoproletario; del “Nessun centralismo fascista è riuscito a fare ciò che ha fatto il centralismo della civiltà dei consumi”; “Quando ieri a Valle Giulia avete fatto a botte coi poliziotti, io simpatizzavo coi poliziotti…”. Poi lasciai la pittura come l’architettura per dedicarmi per moltissimi anni solo al teatro, scenografo e regista, dove però i colori e la materia privilegiarono  ogni idea di lettura del testo e dello scenario. Rimasta in disparte per altri amori quali il cinema, la sceneggiatura e la scrittura, erompe emozionalmente quando decido di affrontare la poesia con la pittura sua anima equivalente - Samuel Beckett e le poesie in francese  e Giorgio Manacorda amico e poeta - (1991 alcuni esempi superstiti sono presenti nel catalogo nella sezione  “Dream and Poetry”). Questa  fu una virata perché differente dai precedenti passaggi tematici, ideologici e elaborativi, senza che fosse più illustrazione narrativa ma puramente istintuale, una nuova pittura diretta al sistema nervoso e non ad una disputa cerebrale. Così come vent’anni dopo, forse in modo ancor più teso, trattando solo il colore per la drammaturgia di Shakespeare dove l’aspetto narrativo si eclissava totalmente per esporsi solo cromaticamente (2009 alcuni esempi nel catalogo nella sezione “Shakespeare’s colours”). Ora, in questa nuova parentesi, dopo tredici anni, nella clausura di un convento, alcuni dei quali trascorsi a scrivere quattro libri di analisi cinematografica, “Due tre cose che so” di cinema, Riverberi, Tra le rovine, Quaderni  e uno di racconti “Racconti e racconti” editati tra il 2021-2024 ,curando contemporaneamente un sito web di riflessione cinematografica “Il pensiero e il cinema” ora modificato in questa nuova veste aperto anche ad altre artisticità; a questo punto giunge la necessità e la motivazioni di lavorare alle opere di "Cocetti circoscritti", come in parte ho scritto nella introduzione  al catalogo. Da quel nero di  Kazimir Malevič all’abstract in nero del quadro dipinto per il manifesto "Embrione", genesi dell'informe, dove segni involontari hanno rimandato echi più profondi, pensieri, concetti o solo parole che sono diventati altri segni, colori, come se il dipinto fosse reale ma al contempo evocativo, come se liberasse sensazioni diverse dall’illustrazione di una narrazione; in questi dipinti sembra che ci sia collegamento narrativo ma non c’è, tutto si tiene insieme circoscrivendosi dentro un quadrato nero per pura contraddizione, l'arte come ossessione della vita di cui siamo noi stessi il soggetto della nostra ossessione, per questo figure, tratti di figure, ma senza interpretazione narrativa come "Le bagnanti" di Cézanne, senza racconto come diceva Valéry, dare la sensazione ma senza la noia di comunicarla.

 

 

galleria

antemostra 

Svelamento

False piste, orme confuse, memoria infranta sono state frapposte alla conoscenza della verità. ’Dischiudimento, svelamento, rivelazione’, l’esserci, in quanto essere del mondo, ha via via svelato un “mondo” per continuare fino alla verità.

Tecnica mista su tela cm 70x70- 2023

Giri di anime terre e mare

Nel tempo di un viaggio, ossessivo o dilatato, si può indagare l’infinito, incontrare un uomo, nessuno o Kurtz…ma la scia è sempre solcata da turbamento.

Tecnica mista su tela cm 57x67 -2023

Il pianto di donne che non piangono

Atomo opaco del male o pura essenza del bene o transitoria cessazione del male, al di là del bene e del male si subisce una atrofia morale senza visibilità, una interiorizzazione bagnata come un lavacro asciutto.

Tecnica mista su tela cm 80x80- 2023

Senza

La coscienza nei volti, negli occhi, il fondo della nostra anima è fatto di qualcosa che sta fuori, tanto quanto sta dentro, si mostra, e c’è sempre un senza in cui ci si può rispecchiare:’l’anemos-soffio-vento’ anima di altri come noi.

Tecnica mista su tela cm 85x85- 2023

Il rettangolo aureo e i sette peccati

Antropometrico, spettacolo meraviglioso in questa scena del mondo-1,618- l’uomo vitruviano si disfa dentro il coitus interruptus di sé stesso.

Tecnica mista su carta cm 80x80- 2023

Auto-ritratto

Un auto-ritratto lo potevano dipingere Velàsquez, Renbrandt, van Gogh, Bacon e forse nessun altro, quindi io mi sono raccontato per bave lasciate su un foglio in un melanconico addolorato giorno di mezza estate.

Tecnica mista su tela cm 80x80 -2023

Fenditure di alterità incrinature di identità

Il pensiero dell’alterità è la possibilità di legare insieme l’dentico e il differente ma che resta insolubile sul piano della mera concettualizzazione. Su questo pensiero, infatti, gli opposti necessariamente si escludono e sono, quindi, estranei. Il tratto da percorrere nell’incontro con il differente è io-tu-noi.

Tecnica mista su tela cm 80x80- 2023

Pensiero irresoluto

Abduzione faticosa, chiusa nelle falle della mente che non fa galleggiare un atto, un gesto, una parola rivelatrice che faccia cominciare a pensare, costruire, creare…diceva il principe danese “Ci sono più cose fra la terra e il cielo che in tutte le nostre filosofie”, ma si continua a rimanere incerti, sospesi, poco probabili riavvolti nel pensiero.

Tecnica mista su tela cm 83x83- 2023

Caos armonico

Un campo di lotta tra forze che non riescono a trovare una composizione in cui si manifesti la volontà che a volte esplode distruttivamente nel caos e oltre quella ragione che lo provoca c’è forse l’illusione che essa stessa possa essere o l’inconscio che armonicamente dissimula e ricompone…nietzscheanamente riflettendo.

Tecnica mista su carta cm 80x80-2023

Dicotomia perversa

L’inconscio padrone delle nostre azioni perverse che contraddiciamo in un compromesso di pulsioni volendo far prevalere in una battaglia persa la coscienza che i mistici pensavano tenesse nel fondo scuro dell’anima l’incoscio non direttamente accessibile…invece la strada è tracciata e la porta aperta.

Tecnica mista su carta cm 80x80- 2023

Il possesso e l’anima

Corpo senza organi come macchina desiderante e desiderata, come fabbrica di pulsioni,carattere rivoluzionario del desiderio che invece ha finito per accordarsi nell’orgia capitalistica come macchina cinica e perversa, abolizione, distruzione e…l’anima con le sue emozioni interiori destate nell’anima da sé stessa.

Tecnica mista su carta cm 80x80- 2023

L’essere è e non può non essere

L’essere non è il nulla, verità incontrovertibile, l’errore, l’arché, l’erranza sarebbe pensare che l’essere possa non essere, ma il mondo è una opinione illusoria dice Parmenide quindi contraddicendosi…il mondo in essere o apparire.

Tecnica mista su carta cm 80x80- 2023

Il silenzio

Dietro ogni parola ci dovrebbe essere pensiero o tacere di quanto non si sa…meglio entrare nel silenzio e uscire dal silenzio come la porta doppia di Duchamp…rimanere discosti, guardare dal nero nel nero, presenza di seé stessi e nel silenzio l’inatteso, l’atarassia.

Tecnica mista su carta cm 80x80- 2023

L’orgoglio la caduta e la ribellione

S’intersecano le linee…filosofia e teologia, fede e ragione, amore disordinato, invidia, l’inquietudine e la beatitudine che attorcigliano l’orgoglio, l’anima di entrambi al proprio fine per la caduta funesta e la lama liberatrice.

Tecnica mista su carta cm 72x95- 2023

Non c’è nessun qualcosa senza il niente

La morte di Dio è sinonimo della scomparsa dell’uomo e la nascita di un altro uomo, ora possiamo pensare dentro il vuoto dell’uomo scomparso né più né meno che come l’apertura di uno spazio nuovo in cui finalmente pensare a qualcosa che sia prima e dopo il niente.

Tecnica mista su carta cm 80x80- 202

Sindrome astenica

Nervosi, ansiosi, depressi, bipolari di sistemi nervosi centrali e periferici che ti circumnavigano corpo e viscere, scompongono le parti e ci giocano a dadi, in vortici, plessi e amplessi tutt’altro che neri e grigioneri ma fantasmagoricamente variopinti.

Tecnica mista su tela cm 85x85- 2023

Pulsioni

Grammatica delle pulsioni, lo specchio, Narciso, la ferita, si vaga in cerca dell’eros che appaghi nelladella figura nascosta capovolta che vuole, si vuole, dissorganizza, distrugge, osserva, attende, si bagna negligentemente…thanatos…

Tecnica mista su carta cm 60x70-2024

Le vite degli altri

Ectoplasmi, ombre, figure, attrazioni, repulsioni, perversioni…sguardi, ascolti, lo specchio si riflette nel tuo iride lì sui cuscini ci sei senza esserci la morte o il sesso di fronte e tutto l’altro intorno alle luci che risvegliano l’esistenza lasciata nel sonno per il risveglio atroce,,,

Tecnica mista su carta cm 70x70- 2024

Seduzione virginale

Appassionata? Mentitrice? Allora chi sei? Sedùcere, soddurre…svelamento di eventi misteriosi, antichi, rimossi dalla coscienza e voluti da essa ossimoro del piacere, ricercare andare oltre in una strategia fatale…con gli umori che fluttuano dalla testa alle viscere…le membra di bambina ricostruita riportate alla luce per sacrificio e spasimo…

Tecnica mista su carta cm 50x70- 2024

Un cuore così bianco

Il segreto…la persuasione, l’istigazione o la brutalità voluta, cannibalica, vampiresca…racchiuso nel cuore così bianco di cui si vergogna Lady M. perché ormai è suo, gli appartiene, tutte le colpe non sono travasate nel contagio dal suo re ma sono proprie…”…la vita non è che un0ombra in cammino…e senza alcun significato.”

Tecnica mista su carta cm 50x65- 2024

Il nulla con esattezza

Il vuoto, il nulla, la ricerca del niente che ti circonda e ti prende come in un frame di Antonioni o in un color field paintings di Rotkho in una declinazione intima, segreta, nascosta che vibra corde sensuali e mistiche…senzasoggetto se non ombraframmento di soggetto tragico e senza tempo come nella caverna dei graffiti.

Tecnica mista su carta cm 70x70- 2024

Mitopoiesi

(puer senex anima ombra)

Archetipi inquietanti, Kronos divoratore di figli…senex e puer in congiunzione con l’anima che crea e cura…incestuoso, libidico e pietoso l’allattamento…dalla quinta dell’ombra si innestano la melanconia rigida della senilità con l’inquietudine armoniosa puerile…che si armonizzano nell’universo dei Titani…

Tecnica mista su carta cm 70x70- 2024

La vita e niente altro…il tempo

Il tempo creato dall’uomo per stabilire un ordine alla realtà, alla vita, per sottrarsi al caos ,  inconsistente e falso, invece è vero il tempo soggettivo scandito dalla coscienza…il tempo scorre, il tempo trascorso è il passato e presente l’istante in cui scorre, quando lo pensiamo come esistente è già passato… il passato non si forma dopo il presente che esso è stato, ma contemporaneamente, non procede a senso unico, ammette salti, dilatazioni, accelerazioni e decelerazioni come la vita e niente altro.

Tecnica mista su carta cm 68x68-2024

Forme pure a priori

Spazio e tempo collegati in un vetrino illeggibile, nelletra le mani, nei crateri e nei tagli, uno come  la forma dell'intuizione sensibile esterna, l’altro forma dell'intuizione sensibile interna…la grata li scompone e ricompone prima che si dissolvano senza comprensione ma vissuti maldestramente in un segno rosso.

Tecnica mista su carta cm 68x68- 2024

La caduta di Priapo, scenari della differenza

Figura apotropaica per il vulgus o simbolo fallocratico di supremazia e abuso, di governo, regime, fascistafustigatore di alterità…ma cade come statua rovesciata di dittatore moderno tirata da funi guardato dalla fanciulla desiderosa e la sessualità senza genere si libera tra l’amore eterno di Antinoo e Adriano nella comunione di un oltre, un ovunque, o di donne in  mescola di umori, amore impudente sfacciato che le tracce vistose di nero stimolano e il rosso l’umido pulsare deterge.

Tecnica mista su carta cm 68x68- 2024

Apocalisse

Bisogna tornare dentro quel nero che ci ha partorito e espulso, dentro l’apocalisse della bestia che ci ha  vomitato e poi fagocitato, ora si deve chiudere la ferita, le labbra riaccostare e cucire per non desiderare, né fare, né dire…nel nero dell’embrione che ci ha permesso la libertà del tempo che ha ferito, lacerato, esposto, urlato, contraddetto…the rest is silence.

Tecnica mista su carta cm 68x68- 2024

 

 

pittura

à nos amours...mutuato dal cinema di Pialat alcuni autori che amo

francis bacon

mark rothko

david hockney

robert rauschenberg

franz kline

jenny saville

georg baselitz

anselm kiefer

william utermohlen

lucian freud

pierre soulages

peter doig

letteratura

"Se c'è un autore che sembra vicinissimo, ancora presente nella cultura italiana o, meglio, nell'immaginario degli italiani vagamente acculturati, è Pasolini. Ma di quale Pasolini si tratta?L'immagine di Pasolini che sembra Pasolini, è Pasolini? Possibile che la sua poesia non stia in piedi, possibile che faccia la fine di D'Annunzio, di un poeta che è poeta, ma la cui produzione, il cui modo d'essere e di pensare, sono totalmente espressione del suo tempo(del gusto del suo tempo), che con la sua epoca svanisce anche lui, relegato in un passato dal quale si salvano solo una manciata di poesie? Se le cose stanno così, ed è molto probabile che così stiano, esiste la sua Pioggia nel pineto? Le sue poesie bastano a sé stesse? Sono eterne, bucano il tempo come Petrarca e Leopardi, o sono "dannunziane"? Spogliato di tutto, il poeta Pasolini esiste?"

Questa la sintesi in quarta di copertina che l'amico Giorgio Manacorda, poeta, saggista, narratore, germanista, traccia nel suo libro PIER PAOLO POETA, nel quale si chiede in maniera accurata, attenta, direi scrupolosa come l'amico Pier Paolo sia diventato un problema critico, addirittura teorico e certamente emotivo nell'analisi di ogni verso, nel vaglio di tutta la sua poetica. "Dalla meglio gioventù" a "Trasumanar e organizzar" uno psicodramma critico che denuda e espone quanto l'amore per Pasolini a volte sospende tralasciando. Manacorda anch'egli si appresta a scriverne con un esergo, come quello di Pasolini a Contini, "con amor de loinh"...

poesia

Poesie a Casarsa

Poesie in friulano

L'usignolo della chiesa cattolica

Le ceneri di Gramsci

La religione del mio tempo

Poesia in forma di rosa

Trasumanar e organizzar

teatro

Affabulazione

Calderòn

I Turcs tal Friùl

Orgia

Pilade

Il vantone

Bestia di stile

narrativa

Amado mio

Il sogno di una cosa

Ragazzi di vita

Una vita violenta

Alì dagli occhi azzurri

Teorema

Petrolio

cinema

Accattone

Mamma Roma

Il Vangelo secondo Matteo

Uccellacci e uccellini

Edipo re

Teorema

Porcile

Medea

 Il decamerone

I racconti di Canterbury

Il fiore delle Mille e una notte

Salò o le 120 giornate di Sodoma

La ricotta- frammento di Ro.Go.Pa.G

La terra vista dalla luna- frammento di Le streghe

Che cosa sono le nuvole- frammento di Capriccio all'italiana

La sequenza del fiore di carta- frammento di Amore e rabbia

La rabbia

Comizi d'amore

Sopralluoghi in Palestina

Appunti per un film sull'India

Appunti per una Orestiade africana

Appunti per un romanzo sull'immondezza

Le mura di Sana

 

saggistica

Passione e ideologia

Empirismo eretico

Scritti corsari

Lettere luterane

Descrizioni di descrizioni

Il portico della morte

Saggi sulla letteratura e sull'arte

Saggi sulla politica e la società

Scritti sul cinema

Antologia della poesia popolare

Poesia dialettale del novecento

Antologia della lirica pascoliana

I film degli altri

Le belle bandiere

Il caos

I dialoghi

Pier Paolo Pasolini

5 marzo 1922-2 novembre 1975

letteratura

L’intellettuale, il letterato, il professore, il critico che forse ho letto di più è stato Harold Bloom, morto nel duemiladiciannove, perché mi ha accompagnato da sempre nella scoperta, riflessione e amore per il Bardo del quale è stato il conoscitore assoluto e così nutrendo il mio teatro e la pittura. Nella sua ultima opera “Posseduto dalla memoria” percorre un viaggio intimo attraverso le opere che hanno segnato la sua esistenza e in uno di questi scomparti tra Shakespeare, I Salmi, Milton, Keats, Blake, Whitman, in coda trova spazio  Proust e i momenti privilegiati, le improvvise estasi di rivelazione della recherce, le sue epifanie, visitate  da Beckett in un prodigioso saggio giovanile, che avevo letto molto tempo addietro, e la memoria di cui parla Sant Agostino. Ecco la memoria che mi interessa perché nutrita dal tempo che in fondo è una ossessione, un po' come per Christopher Nolan e i suoi film. “Questi giorni  dunque non sono; quasi se ne vanno prima di venire, e appena sono venuti non possono restare, si congiungono si rincorrono e non si arrestano. Niente del passato torna indietro; ciò che è futuro si aspetta che trascorra; non ancora lo si ha, finché non viene; e non si può trattenere, quando sarà venuto…” scrive Sant Agostino. Ancor prima di Proust cerca il tempo perduto, cerca nel ricordo ma sa che l’io rimembra perturbando il passato…il labirinto della memoria e il tempo, anzi tre tempi: le cose passate che sono ancora presenti, le cose presenti, le cose future già presenti. Queste le focali che guideranno i miei prossimi dipinti e la scrittura, se ci sarà. A voi la nota per questo libro che vi guiderà sapientemente all’incontro con opere fondamentali, a me la scintilla che spero produrrà altro pensiero in un linguaggio o un altro o entrambi. 

harold bloom

teatro

"Il teatro resiste come un divino anacronismo" diceva Orson Welles , i drammaturghi del novecento che conosco e ammiro sono stati i pilastri di questo antiquato, sorpassato, oltrepassato, superato, desueto, arcaico, inopportuno, sconveniente rito necessario che gli attori, pochi, pochissimi, riescono magicamente a trasformare ogni sera, di tutte le sere diverse con il talento che fa quello che vuole o il genio che fa quello che può come di sé concludeva il più grande attorenonattore Carmelo Bene..."del genio ho sempre avuto la mancanza di talento". Dopo Euripide, Sofocle, Eschilo, Plauto, Aristofane, Terenzio, Menandro, Seneca, Shakespeare, Marlowe, Ruzante, Schiller, Kleist, Molière, Goldoni, Goethe, Corneille, Racine, Lessing, Bückner, Čechov, von Hofmannsthal, Schnitzler, Wilde, Shaw...i moderni e contemporanei.

julian beck e judith malina

max frisch

eduardo de filippo

heiner müller

enzo moscato

david mamet

alfred jarry

annibale ruccello

gabriele d'annunzio

antonin artaud

arthur miller

august strindberg

eugenio barba

bertolt brecht

carmelo bene

caryl churcill

friedric dürrenmatt

ernst toller

frank wedekind

jerzy grotowski

harold pinter

henrik ibsen

jean cocteau

eugene ionesco

botho strauß

jean genet

federico garcia lorca

luigi pirandello

robert musil

samuel beckett

thomas bernhard

tennessee williams

tadeusz kantor

sarah kane

rainer werner fassbinder

raffaele viviani

albert camus

pier paolo pasolini

andrè gide

teatro di epidauro

the globe

théâtre des bouffes du nord

Questi sicuramente gli autori, la parola teatrale scritta nei secoli, ma ho sempre pensato che non dovesse perdurare la convinzione che il teatro è la messa in scena di un testo, l'incarnazione del pensiero dell'autore. Questo teatro del testo impedisce un altro teatro quello in cui materiale verbale e sonoro, anche un sol urlo (come vidi significativamente espresso in uno spettacolo di  Eugenio Barba da Brecht) viene rappresentato liberandosi della scrittura e della sua inopportuna sacralità pur mantenendo significante sia l'uno, il soggetto della scelta, che l'altra, la diversa volontà rappresentativa.Insomma un teatro che fosse testo e movimento rimanendo ancorato alle categorie filosofiche greche di luogo, spazio e azione mi ha interessato di meno di quello che invece si offre attraverso l'eliminazione del linguaggio, del soggetto e dell'oggetto, partendo comunque da testi famosi. Una voce dissonante, una "macchina attoriale" come quella unica di Carmelo Bene che ha considerato il teatro rifiuto di ogni forma di arte, di ogni arte della forma, di decoro e decorazione, dicendo "il teatro non deve aver bisogno di essere capito, perché tutto ciò che si capisce non è teatro, non è vita" così come quanto penso dell'arte in generale che unica a valere è quanto non sai spiegare.

leo de berardinis

carmelo bene

antonin artaud

i giganti della montagna

otello

ragione e delrio

cinema           nuove riflessioni

yorgos lanthimos

Kinds of kindness di Yorgos Lanthimos

 

Nazione U.K Anno 2024 Genere Commedia drammatica Durata 164’ Interpreti Emma Stone, Jesse Plemons, Willem Dafoe, Margaret Qualley, Yorgos Stefanakos, Hong Chau, Joe Alwyn Sceneggiatura Yorgos Lanthimos, Efthimis Filippou Fotografia Robbie Ryan Montaggio Yorgos Mavropsaridis Costumi Jennifer Johnson Musica Jerskin Fendrix

 

La tragedia diventa molto più inquietante di quanto non sia oscuramente divertente, potrebbe essere epigrafe al trittico crudele, a volte esilarante come ripugnante di Kind of Kindness sottolineando che il cinema può essere anche il contrario di ciò che sembra. La concezione di bontàgentilezza del titolo a contatto con il male che fuoriesce da letamai mentali nei quali la regia vuole farci riconoscere nel grottesco, patetico disagio di una pala d'altare profana. Lanthimos dopo i fasti mainstream di Poor things e The favorite torna al suo antico sceneggiatore per rilanciare, anche se frettolosamente, le tendenze maligne che hanno attraversato la sua migliore e iniziale cinematografia quali Dogtooth (la mia preferenza in assoluto) e Alps fino a The killing of a sacred deer e Lobster. Corpo, potere, alcuni vogliono abusare di te, alcuni vogliono essere abusati come introduce al film, riassumendolo perfettamente, la voce di Annie Lennox nel suo dolce sogno in cui ci si immerge tra crudeltà, autopunizione, stupro, brutalità, tutto questo nei tableaux incorniciati da grandangolari anche se su schermo largo di diversa espressività formale. È un film senza compromessi, che pone domande difficili ed esistenziali senza preoccuparsi di rispondere perché la traccia non obbliga alla sottotraccia con la quale invece devi contrapporti e confrontarti. A  differenza di Wheel of Fortune and Fantasy di Ryusuke Hamaguchi (ottimo film di questo grande regista) , che raccolgo in accostamento strutturale, dove ogni racconto rivelava qualcosa di nuovo sulla sua visione del mondo, Kinds of kindness  vede Lanthimos andare avanti  a carte scopertenascoste di quel che può apparire manierismo di formula ma è invece metodologia patologica di questo universo messa in gioco come una sindrome sgradevole, spesso brutale, sofferta da individui loschi e sospettosi, assassini, incapaci di gioia, destinati alla sconfitta che possono sembrare innaturalmente concepiti mentre sono qui e ora con  con la loro irriverenza ,  il surrealismo voluttuoso, il distacco verso l’esperienza emotiva. Kinds of Kindness è composto da tre segmenti interconnessi, tutti esposti  con un linguaggio idiosincratico, come dicevo, senza interesse o bisogno di condividere con chi guarda in un contesto più ampio di interazione e risposte. Nel primo Robert lavora per il mefistofelico Raymond, che controlla la sua vita in ogni singolo dettaglio, quando svegliarsi e fare sesso, chi sposare, non avere figli, di leggere Anna Karenina; in cambio lo premia con dei regali incredibili una casa, una racchetta rotta da John McEnroe, l’ultimo casco di Ayrton Senna. Nel secondo Daniel è un poliziotto sposato con Liz, dispersa su un’isola deserta; quando la moglie torna a casa, lui si convince che quella non è la sua vera moglie e comincia a chiederle dei “sacrifici”, come il suo pollice o il suo fegato. Nel terzo Emily e Andrew sono due adepti di una setta che sta cercando un nuovo leader spirituale: il requisito fondamentale è che sappia resuscitare i morti. Giocattoli di sottomissione e crudeltà l’uno; paranoia e martirio il secondo; isolamento, debolezze e l'utopia di un messia nel terzo. Questo non collegamento di narrazione contenutistica, ma il solo ricorrente sottotracciato del libero arbitrio, rende la visione esasperatamente e ipnoticamente affascinante intrecciata solo dalla sua personale estetica senza compromessi, senza armonia, invischiato in assurdo umorismo nero che sfiora i limiti della credibilità (una per tante, la spiegazione, senza che sia richiesta, a una anziana segretaria del perché Raymond e sua moglie non possono avere figli). Lanthimos usa del bianco e nero per sogni, allucinazioni e ricordi e il colore e un tono narrativo glaciale molto kubrickiano, per analizzare temi come la manipolazione, sadismo, delirio, dinamiche sessuali, cannibalismo, idiozia culturale, masochismo, pensiero magico, insensibilità, follia, abuso, sfruttamento, idealismo, noia, docilità e ovviamente la sua controparte la ribellione.Il ripetersi cadenzato e maniacale degli interpreti nei tre segmenti, ugualidiversi, delle loro azioni sconsiderate come delle lettere R.M.F lasciano posto anche ad una specie di allineamento filmico, la ripetizione come mutazione della crudeltà umana. La messa in scena  labirintica, in una condivisione s-equilibrata, di uno spettacolo di prestigio in cui sono ammesse tutte le improbabilità fanno sembrare quasi che la regia voglia porre in discussione la funzione stessa dell'atto cinema e lo fa con un film austero, pericoloso, inquietante, che si evolve attraverso emozioni, movimenti provocatori, deviazioni in alcune parti dei dialoghi,  sconcertante, disorientante, che mette a disagio, con la diversità padrona. Molte assonanze di legami fragiliforti con Todd Solondz, Stanley Kubrick, Michael Haneke, Lars von Trier, Luis Buñuel e Todd Haynes dei primordi. La Stone brilla come sempre di luce propria, Plemons attore talentuoso di grande efficacia senza artifici nel drammacommedia, Dafoe emotivamente presente nelle diverse situazioni. Colonna sonora ricercata. 

 

 

kinds of kindness

filmografia

o kalyteros mou filos

Sinossi 
Costantino scopre per caso l'infedeltà della moglie Andrea, che lo tradisce con il suo migliore amico Alekos. Contemporaneamente, anche la moglie di Alekos sospetta che suo marito le sia infedele, e indaga per scoprire la donna per cui il marito ha perso la testa.

kinetta

Sinossi
Un poliziotto, un fotografo, una cameriera d'albergo, simulano in varie pose progressive la scena di un delitto per tentare di risolverlo.

dogtooth

Sinossi
Una famiglia vive isolata in periferia, in una casa circondata da un grande recinto. L'equilibrio viene spezzato quando il padre, per soddisfare gli istinti sessuali del figlio, introduce in casa un elemento esterno: Christina.

alps

Sinossi
Ad Atene, una squadra formata da un paramedico, un'infermiera, una ginnasta e un allenatore impersonificano sotto compenso persone appena defunte per aiutare amici e parenti a lenire il dolore dell'elaborazione del lutto.

lobster

Sinossi
In una società distopica, le persone senza alcuna relazione significativa vengono convocate presso un albergo dove, secondo le leggi stabilite dalla città, devono trovare l'amore in quarantacinque giorni, pena l'essere trasformati in un animale di propria scelta. Il giovane David però decide di ribellarsi e scappa in un bosco con un gruppo di altri dissidenti.

the killing of a sacred deer

Sinossi
Steven, un chirurgo carismatico, è obbligato a compiere un sacrificio impensabile dopo che la sua vita inizia ad andare in pezzi, quando il comportamento di un adolescente che aveva preso sotto la sua protezione si fa sinistro. Dal mito di Ifigenia in Aulide di Euripide

the favourite

Sinossi

All'inizio del XVIII secolo in Inghilterra, una fragile regina Anna occupa il trono e la sua amica intima Lady Sarah governa il paese al suo posto. Quando arriva una nuova governante Abigail, il suo fascino incanta Sarah e la regina. 

poor things

Sinossi

La storia di una donna incinta morta suicida a cui viene trapiantato il cervello del proprio feto e poi viene rianimata. Bella Baxter  si ritrova quindi a vivere da infante in un corpo di donna, ma senza saperlo, scoprendo il senso della vita.

kinds of kindness

Sinossi

Tre storie ruotano attorno a un uomo che cerca di prendere il controllo della propria vita, un poliziotto la cui moglie sembra un'altra persona e a una donna che cerca una persona con una capacità speciale: resuscitare i morti.

bertrand bonello

Bête di Bertrand Bonello Nazioni Francia Anno 2023 Genere Drammatico Durata 146’  Interpreti Léa Seydoux, George MacKay, Guslagie Malanda, Dasha Nekrasova Sceneggiatura Bertrand Bonello, Guillame Bréaud, Benjamin Charbit, dalla novella di Henry James “The beast in the jungle” Fotografia Joséè Deshaies Montaggio Anita Roth Costumi Pauline Jacquard Musica Anna Bonello , Bertrand Bonello

La bête dans la jungle di Patric Chiha Nazioni Francia Anno 2023 Genere Drammatico Durata 103’ Interpreti Anaïs Demoustier, Tom mercier,  Beatrice Dalle, Martin Vischer, Sophie Demeyer Sceneggiatura Patric Chiha, Axelle Ropert dalla novella di Henty James “The beast in the jungle” Fotografia Céline Bozon Montaggio Julien Lacheray Costumi Claire Dubien Musica Florent Charissoux, Emilie Hanak, Dino Spiluttini

 

La novella di Henry James The beast in the jungle trova due autori, contemporaneamente, a correlare il proprio punto di vista sul testo e fondamentalmente sul cinema. Userò poche frasi per il film di Chiha che esplora in modo abbastanza innovativo il rapporto con il tempo, e con esso la rivelazione dei corpi nella notte, in cui un uomo e una donna cercano di trascendere l'enigmatica presenza dell'essere umano nel mondo per far emergere il significato di un incontro. Durante una notte in una discoteca, May riconosce il misterioso John che aveva incontrato dieci anni prima e che le aveva confidato un inusitato segreto. Il personaggio femminile è interamente immerso nell'energia del gruppo, della danza, della musica, della seconda pelle che si muta con il cambio dei costumi serali, partecipando al momento presente che è fuori dal tempo; il personaggio maschile è invece l’antagonista attraverso la sua determinazione ad isolarsi, il rifiuto di esprimere ogni estensione di sé stesso che rifletta l'evoluzione delle sue emozioni e l’attrazione verso la morte. La dipendenza sempre maggiore dei protagonisti per questi incontri notturni, che durano decenni, dove il desiderio di vedere emergere questo segreto straordinario è costantemente inappagato. Bisognerebbe infrangere o attraversare lo specchio perché Orfeo possa cercare negli inferi l’amore perduto di Euridice. In questo mondo  estatico dalla balconata che vi si affaccia avvertiamo due persone che lasciano sfuggire la vita nella palpabile melanconia ben recitata.

Perché ho reso incipit questo film decoroso che non è l’argomentare che mi interessa? Perché la materia appena narrata ha consentito a Bertrand Bonello di fornirci il suo film più ambizioso con una creatività pertinentemente consona per ogni sequenza. Il regista crea una storia labirintica tanto ossessiva quanto delirante, contemporanea, romantica, spietata e eccentricamente insolita, persino incomprensibile per complessità coraggiosa di una prosa filmica innovativa. La sua narrazione audace nella struttura raggiunge profondità sul piano teorico quanto emotivo, questo con maggiori scalfitture. Un melodramma romantico pessimista e seducente, una riflessione sul tempo e sul suo andare, che non produce onde, tumulti,  freddo o caldo ma l’ adeguatezza per l'eternità. Ma non facile né accessibile a tutti con la proposta di entrare in un labirinto e provare sensazioni, alcune macabre altre  visionarie,  invece di uscirne. La regia ha estratto l’amara saggezza di James e l’ha tripartita in drammi separati e collegati e un insinuante prologo, una introduzione, in uno sfondo verde con un tavolo verde con un coltello, dove la voce off del regista chiede a Gabrielle-Seydoux di immaginare una bestia, lei in jeans e scalza, poi un primo piano e un urlo, titolo…la paura dell’amore. Fin dall'inizio, una donna saldamente sotto la direzione di uomo, ma non ancora a subire l'incantamento, il controllo, il giogo di lui. Il primo segmento del film, cronologicamente e spiritualmente è più vicino a James degli altri, nei salotti della Parigi dei primi del secolo Gabrielle-Seydoux cerca il marito ma incontra l’amico e antica fiamma Louis-Mackay, premonizione di quanto dovrà accadere con le emozioni che non si possono relegare in un passato nascosto. Con un salto temporale vistoso fino al duemilacinquanta il secondo segmento ci accompagna dentro un mondo senza affetti invaso da un'intelligenza artificiale programmata per rimuovere la paura come altre emozioni diventate una minaccia. Per sbarazzarsene, Gabrielle deve purificare il suo DNA tuffandosi nelle sue vite passate deve sottoporsi a un processo speciale, che si traduce in uno stato psicofisico nel quale non avvertirà più nulla non riuscendo però a lasciare andare l’amore della sua vita antica, Louis. In una Parigi vuota, dove passeggiano un cervo o un cane, abbandonata, e i passanti rimasti indossano elmivisiere, tutti ripuliscono vecchi traumi. Nel terzo segmento si torna indietro sempre negli anni duemila dove assistiamo allo scontro tra  la modella Gabrielle e il celibe  Louis, diventato un solitario che vuole vendicarsi delle donne e invia i suoi pensieri violenti al mondo tramite i social media, un fornitore di “conati” insopportabili e autocommiserativi dovuti anche all’incapacità di relazionarsi sessualmente. Qui il film diventa aggressivo,  paralizzante, loquace, insistendo sul tema che ogni generazione ha le sue insicurezze, le sue paure, il proprio amore, e ciò ci lega al passato per  come ha gestito i propri demoni  riuscendo a sottometterli o subirli. La capacità di Bonello di creare immaginivisioni è stupefacente:  dimore moderniste lussuosamente arredate, simboli potenti e spesso sconcertanti coltelli affilati, bambole . Ancora più sorprendente la sua facilità e agilità narrativa: il film fluisce dentro e fuori da queste tre realtà, ciascuna plausibile quanto la successiva, ciascuna delle quali offre un commento continuo a ciò che la precede o a quella che la seguirà. Tutto si incastra nello stesso modo inquietante tra frammenti evanescenti e sperimentali e pura fiction, di un film d'autore raffinato che non viene contaminato da nulla  di volgare e sporco come può essere la realtà. Parigi ha paura della inondazione del millenovecentodieci, funesta per loro, il volto della bambola che Gabrielle mostra a Louis, tra quelle che il marito fabbrica, è un volto inespressivo, come il futuro, come Kelly ( Guslagie Malanda bravissima in Sant Omer della Diop)  la bambola pensante del film che arriva ad esprimere i propri desideri, ma come la Barbie della Gerwig o Bella di Lanthimos. I chiaroveggenti raccontano storie dove la morte per acqua o fuoco sembrano l’unica scelta. Madama Butterfly fa riflettere. Molti dettagli oracolari, un piccione in casa, la musica, il potere della danza, lacrime e coltelli e l’inondazione e una spilla, una pistola e la piscina parlano della stessa bestia da tenere d'occhio. Nulla di questo film è facile da narrare se non nel suo ipnotico artificio di sovrapporre, scavalcare, uniredisunire, travalicare nel tempospazio e nel sentimento che lo istruisce e dirige, l’enigmatico dramma romantico fantascientifico lungo oltre un secolo con gli stessi personaggi, anzi “persone”, anzi facce o maschere teatrali, in un costrutto per parallelismi, inquadrature molto studiate e selezionate che turbinano  e figureombre misteriche, molto lynchiano quanto hanekiano.  Bertrand Bonello, sempre fedele alla sua concezione delle immagini, qui diviene prestigiatore per il nostro piacere o sgomento o fastidio, coerentemente  intellettuale si ostina a celebrare un cinema d'autore, cinefilia pura e intransigente e nello specifico di questa opera anticipatore sul tema della intelligenza artificiale. Dietro i suoi temi come la tecnologia invasiva, il corpo disincarnato, la relazione sentimentale disturbata, il declino dell'affetto e dell'emozione, la Bête  ha un’anima romantica sicura di sé, è una meravigliosa storia d'amore in tre atti con la stessa coppia in formazione o destabilizzazione. La scena più originale, (sminuendo ma non conosco un sinonimo, di suo concettualmente “inesistente”, per definirla) è l'assassinio,  giocando sui flashback Bonello non solo mette in discussione le conquiste del cinema e la manipolazione delle immagini, ma riesce a rubare alla vittima il suo  status perché non muore davanti ai nostri occhi, né nel modo in cui ci si aspetta dimostrando che il progresso della tecnologia non ha quindi traumatizzato solo i personaggi e la vita  ma cambiato il modo di vedere il cinema. Se proprio voglio cercare colpe le additerei a alcuni momenti vuoti che non capisci dove ti condurranno ma deduci (non è semplice formularlo)  anche che sono frutto di eventuali proposte troppo innovative ma non portate a compimento. La conclusione è un'epifania commovente, un'illuminazione che ci riporta alla gestazione e ancor più al fondamento dell'emozione pura, meravigliosamente cinematografica. Come in L'anno scorso a Marienbad  questi due aspiranti amanti si ritrovano attraverso il tempo, ancora e ancora, intrappolati in traumi generazionali e ricordi di vite passate, indifesi rispetto al loro destino di non stare mai insieme. Bête   è  il film più ambizioso e seducente che Bonello abbia girato, colmo di idee che traboccano dall’orlo. Léa Seydoux  e George MacKay perfetti, con l’attrice che si migliora continuamente per una duttilità sorprendente con la migliore interpretazione della carriera, giocano entrambi con moderazione senza mai perdere la loro umanità  alternando linguaggio e accenti (bisogna vederlo in originale sottotitolato). Con La zona d’interesse di Glazer, Pacification di Serra e Annette di Carax questo è il miglior film che ho visto in questo ventennio (altri sicuramente pregevoli e lodevoli che fornirò in una scheda dei film del nuovo secolo) ciascuno di essi appieno titolo per quanto penso che debba essere il cinema: innovativo, sfacciato, dirompente, intransigente, colto linguisticamente e insueto. 

 

 

payal kapadia 

All we imagine as light di Payal Kapadia Nazione India, Francia, Paesi Bassi, Lussenburgo, Italia Anno 2024 Genere Drammatico Durata 118’ Interpreti Kani Kusruti, Divya Prabha, Chhaya Kadam, Hridhu Haroon, Azees Nedumangad Sceneggiatura Payal Kapadia Fotografia Ranabir DasMontaggio Clément Pinteaux Costumi Maxima Basu Musica Dhritiman Das, Topshe

Una premessa. Avevo visto e scritto su A night of knowing nothing di Payal Kapadia  nel mio libro Riverberi e le parole scritte sul selciato racchiuso in un fotogramma del film  “arte e rivoluzione” erano state viatico per una giovane regista che mi aveva sollecitato con quella atipica vicenda amorosa intrecciata alla politica, la storia e il cinema. Oggi la ritrovo in questa nuova opera che ho visto senza sapere degli allori di Cannes, che or penso ampiamente meritati…una scoperta rivelatasi allora opportuna e oggi gratificante per una emergente talento.  Sorprendentemente  abbagliante per la brutale sincerità che profonde sensorialmente verso l’imperturbabile atarassia dell’eterno attraverso i personaggi femminili prodigio di sensibilità e sentimenti. Kapadia esplora le relazioni e le emozioni di queste donne con la beltà e un incantamento sensuale così poco occidentale. Una storia senza eroine che si commuovono e coinvolgono l’animo di chi cerca di afferrare la sfuggente interiorità rilucente del loro animo. L’amicizia, l’amore, il desiderio, la rinuncia, l’assenza e la volontà a non deludersi completamente, sedute in circolo alle sedie di un bar sulla spiaggia, uniche avventrici e un garzone che balla sotto i filari di lampadine colorate in un campo lungo e maestoso con la natura di alberi secolari a circondare la notte, nella chiusa con una inquadratura notturna e bellissima. La narrazione sempre fluida e coinvolgente attraversa la cronaca commovente e luminosa di una megalopoli bagnata e crepuscolare a dispetto di una folla perennemente in movimento dove le protagoniste cercano una correlazione con sé stesse e qualcun altro,  presente o lontano, pretendente o voluto o assente. L’introduzione alle amiche conviventi, l’infermiera Prabha e la receptionista Anu, avviene in una sinfonia metropolitana con camera-car (forse un treno) di venditori, mercati, derrate, camion, e poi  treni con carrozze affollate, musica, chiacchiere, vendita di cibo all’aperto, in un caos da fondale quasi documentaristico estremamente efficace per innervarci dentro la storianonstoria, di un cinema non di prosa ma di poesia, come diceva Pasolini “lo stile del cinema di poesia è l’elemento centrale, fondamentale…si sente fortemente la macchina da presa, si sente fortemente il montaggio…”. Provenienti entrambe da villaggi rurali sono venute a cercare lavoro in città, la capoinfermiera non vede suo marito da due anni perché è andato a lavorare in fabbrica in Germania subito dopo il loro matrimonio combinato; Anu per sfuggire a un matrimonio anch’esso già combinato dalla famiglia molto ortodossa, fantastica su un futuro diverso, segretamente innamorata di un giovane musulmano, la cui relazione che non sarebbe mai approvata dai genitori è anche oggetto di pettegolezzi tra le colleghe. Un medico dai modi gentili è interessato a Prabha, anche lui trapiantato dalla campagna ha difficoltà con la lingua, l’ attende alla fine dei turni e alla stazione ferroviaria timidamente le regala il suo libro di poesie che lei legge con la torcia del cellulare, seduta davanti alla finestra in queste notti liriche e piovose con i treni in lontananza che continuano i loro viaggi verso altri destini, altre storie immaginabili in un trasferimento di corpi e sentimenti salvaguardati dalla luce interna che seziona l’inquadratura come se il transito fosse necessario per comprendere il buio che li circonda e una luminosità che non affiora. Anche Parvaty , una cuoca dell’ ospedale, è un’altra anima alla ricerca della luce, sta per essere sfrattata dalla sua casa  in cui vive da più di venti anni  a causa di un nuovo brillante sviluppo edilizio, deve far ritorno al suo villaggio rurale sul mare. Il dono anonimo di una pentola, che arriva dalla Germania, potrebbe far pensare a un regalo o un addio del marito al quale si contrappone con una recitazione sottotono, di quiete moderata ma non meno espressiva a rendere piacere, sconcerto, risentimento e, naturalmente, desiderio in modo esemplare. Il mèlo di queste tre donne con le loro insicurezze emotive ed economiche consente alla regista anche un commento ai tanti problemi sociali e politici dell’India che la iniziale voce narrante suggerisce, tessendo un arazzo sensoriale e sociopolitico simile alle osservazioni  di Jia Zhangke nei suoi film  Il tocco del peccato, Still life, I figli del fiume giallo. Poi come per incanto la partenza verso il mare nella nuova casa di Parvaty accompagnata dalle amiche, e nascostamente dal ragazzo musulmano, trasferisce tutto il peso gravoso della costrizione fisica e sociale per erompere in una “clandestina” fuga dove anche l’impossibile riconduce le maglie del riconoscimento del desiderio e dell’identità. Un naufrago come resuscitato da Prahba sulla spiaggia e accudito racconta amorevolmente il dolore dell’abbandono del marito che riflette nell’uomo che le è accanto in quel breve bagliore inusitato  diventare un veicolo per una voce che  desiderava ardentemente sentire. Un momento sconvolgente e allucinatorio che allontana dal realismo, come in parte la natura sfuggente di un sogno o di un ricordo anche nei momenti concreti e quotidiani precedenti del film. Il cambiamento surreale richiama le tendenze trascendentaliste o animiste di Weerasethakul o Lav Diaz con la   disgiunzione tra  il suono e l’ immagine come fa la regista nell’incipit con la voce off nella lunga carrellata in movimento molto akermaniana;  inoltre  dirige artisticamente in una monocromaticità melanconica di blu per gran parte del film, tessuti, camici, luci degli interni e della città in stile Wong Kar-way. Anu  invece  che non si sente esaminata e giudicata in questa landa marina riesce a offrire il sesso al ragazzo che ama. Voce nuova fuori dal coro commerciale mainstream bollywoodiano (come la Tamhane) in una società fortemente patriarcale riesce a rappresentare la classe operaia quanto la donna nella sua essenza e punto di vista, un nuovo approccio creativo per catturare verità  dolorose che  la contraddistingue come una regista di notevole promessa.

 

" Il cinema stesso è una nuova pratica delle immagini e dei segni, di cui la filosofia deve fare la teoria in quanto pratica concettuale. Perché nessuna determinazione tecnica, né applicata (psicoanalisi o linguistica), né riflessiva,  è sufficiente a costruire i concetti del cinema stesso"

Gilles Deleuze

i miei registi e i miei attori del mio cinema contemporaneo e futuro...

...prima altri padrimaestri hanno detto...


 “Noi sappiamo che sotto l’immagine rivelata ce n’è un’altra più fedele alla realtà, 

e sotto quest’altra un’altra ancora, e di nuovo un’altra sotto quest’ultima, fino alla 

vera immagine di quella realtà, assoluta, misteriosa che nessuno vedrà mai, o forse 

fino alla scomposizione di qualsiasi immagine, di qualsiasi realtà”

Michelangelo Antonioni

 

“Il cinema è la verità a ventiquattro fotogrammi per secondo”

Jean Luc Godard

 

“Il cinema è la menzogna a venticinque fotogrammi per secondo”

Rainer Werner Fassbinder

 

“Il cinema è il come, non il cosa”

Alfred Hitchcok

 

“Poichè il cinema non è solo un'esperienza linguistica ma, proprio in quanto ricerca linguistica, è un’esperienza filosofica”

Pier Paolo Pasolini

 

“Non voglio dimostrare niente, voglio mostrare”

Federico Fellini

 

“Il cinema sostituisce al nostro sguardo un mondo che si accordi con i nostri desideri”

André Bazin

 

"La cinefilia non è solo una relazione particolare con il cinema, è una relazione con il mondo attraverso il cinema"

Serge Daney

 

“I film nascono prima nella mia testa, muoiono sulla carta, vengono risuscitati dai soggetti viventi e dagli oggetti reali che uso, che vengono uccisi sulla pellicola ma, posti in un certo ordine e proiettati su uno schermo, prendono vita ancora una volta come fiori nell’acqua”.

Robert Bresson

 

“A differenza di tutte le altre forme d’arte, il cinema è in grado di cogliere e rendere il passaggio del tempo, per fermarlo, quasi a possederlo in infinito. Direi che il film è la scultura del tempo”.

Andrej Tarkovskij

 

“Il cinema è più vicino alla musica che alla pittura, perché è fatto non di immagini ma di inquadrature, dove dentro scorre il tempo come nella musica.”

Eric Rohmer


"Il cinema è montaggio"

Sergej Michajlovič Ėjzenštejn

 

Ricorderemo il mondo attraverso il cinema

Lav Diaz

 

 

 

...e di questi e altri maestri la mia circoscritta storia del cinema,  i frame che ho amato e per i quali ho "pensato" il cinema... dal 1895 al 1999 suddivisi per decenni con una scelta parziale dei film possibili da presentare...del nuovo secolo parlerò  in una sezione differente, in modo dissimile e distinto, e mi piace pensare come se fosse  rinato inseguendo quella locomotiva alla stazione di la ciotat per darle un significato disuguale, con gli autori di questa contemporaneità che cerco di scoprire tutti i giorni nei cassetti bui dell'invisibile per renderli percettibili o che già rinnovano le mie prefigurate aspettative...

i registi di questa storia lunga un giorno per chi ama il cinema

melville aldrich barnet scorsese siodmak burton capra grandieux petzold carné siegel chabrol zvyagintsev haneke skolimowski sarafian chaplin klimov cimino zampa comencini koncalovskij wellman dardenne zhangymou cronenberg cukor munk curtiz lumet demy desica payne desplechin diaz eastwood frannju epstein farhadi vigo browing fassbinder ferreri gitai chahine landis noé windingrefn fuller reisz kinoshita garrone hill germi ducornau greenaway griffith akerman hamaguchi hawks granierdeferre herzog forman houhsiaohsie zangke hitchcock bellocchio hittman naderi citti friedkin saura ceylan huillet guiraudie pakula tanner becker martel huston ioseliani jarman july kaurismaki ostlund frears reitz makavejev karway kazan gilliam bertolucci zanussi amalric parajanov wakamatsu keaton techine figgis kiduk wiseman coen pelesjan kieslowski kitano clair sachs weerasethakul kobayashi koreeda kubrick kurosawa ichikawa nolan marker syberberg costa lang panahi jewison lapid carax yoshida schlesinger wangbing dumont weir mandico lanthimos ozon larrain dassin daves kluge puiu olmi lattuada schroeter boetticher reygadas hathaway leechangdong sandrich clouzot loach ritt losey lubitsch deoliveira cipri tourneur richardson trenker comes depalma lynch bressane malick leroy caligari kusturika malle ouedraogo trier resnais fellini ferrara marker debord kawalerowicz de mille matarazzo scola goundry kechiche bresson whale mungiu robegrillet minnelli goulding imamura seidl zurlini mizoguchi bonhjoonho mankiewicz stone angelopoulos vinterberg inarritu carpenter gance monicelli moretti muratova sembene villeneuve del toro widerberg guney bagalov verneuil triet maresco haynes garrel bonello murnau fisher audiard naruse mendoza ophuls dileo pabst bergman verhoeven debernardi palesjan ruiz parker pasolini myazaki antonioni dolan guediguian almodovar peckinpah jancso penn petri pialat pietrangeli hellman borowczyk jude polanski leespike pollack sepitko powell preminger pressburger royhill pudovkin leigh wise renoir vandormael ulmer spielman ripstein altman jarmusch fincher nichols melies rocha godard deseta rohmer rosi rossellini dwoskin vansant serra sangsoohong schrader edwards shindo bigelow demme ejzenstejn ivens sirk sjostrom jonze soderbergh leone sokurov romero bava levison rozier spielberg stahl hazanavicius straub deville suzuki tatantino flaherty tarkovskij tarr fontaine tati monteiro fliegauf szumowska tavernier truffaut tsaimingliang jodorowsky tsukamoto varda leeang vertov visconti sautet eustache mccarey aronofsky vonsterberg wajda sono denis walsh kozintsev dmytryk warhol loznitsa sheridan welles cassavetes fleming solondz mcqueen rivette wenders dearanoa wilder woo erice wyler stevens assayas escalante zulawsky mekas bunuel parkchanwook oshima ozu...e quelli deliberatamente tralasciati.

1895-1920

l'arrivo di un treno alla stazione di la ciotat

viaggio nella luna

la nascita di una nazione

intolerance

il gabinetto del dottor caligari

1921-1930

il monello

femmine folli

il carretto fantasma

nosferatu

il dottor mabuse

l'ultima risata

la palla n° 13

rapacità

matrimonio in quattro

la febbre dell'oro

la corazzata potemkin

il generale come vinsi la guerra

sinfonia nuziale

metropolis

napoleon

aurora

ottobre

la caduta di casa usher

l'uomo che ride

la passione di giovanna d'arco

queen kelly

il cameraman

la folla

la coquille et le clergyman

un chien andalou

lulù, il vaso di pandora

l'uomo con la macchina da presa

l'angelo azzurro

l'age d'or

jean-luc godard

anna karina

questa è la mia vita

1931-1940

m il mostro di düsserdolf

luci della città

frankenstein

il dottor jekyll e mr hyde

tabù

a me la libertà

freaks

scarface

vampyr

mancia competente

shanghai express

pericolosa partita

king kong

fra diavolo

l'uomo invisibile

zero in condotta

accadde una notte

l'atalante

ventesimo secolo

lo specchio della vita

il club dei trentanove

cappello a cilindro

il traditore

tempi moderni

vicino al mare più azzurro

une partie de campagne

la grande illusione

pépé le moko

l'eterna illusione

alexandr nevskij

il porto delle nebbie

l'angelo del male

femmina folle

il mago di oz

ombre rosse

alba tragica

la regola del gioco

rebecca

il grande dittatore

furore



jean-luc godard

jean-paul belmondo e jean seberg

à bout de souffle

 

 

1941-1950

come era verde la mia valle

quarto potere

la donna del giorno

vogliamo vivere

casablanca

l'orgoglio degli amberson

il bacio della pantera

l'ombra del dubbio

ossessione

alba fatale

il cielo può attendere

la fiamma del peccato

la fiamma del peccato

la donna del ritratto

arsenico e vecchi merletti

detour

perfidia

vertigine

ivan il terribile

paisà

amanti perduti

sciuscià

giorni perduti

la scala chiocciola

il romanzo di mildred

roma città aperta

il grande sonno

la bella e la bestia

la vita è meravigliosa

sfida infernale

gilda

il silenzio del mare

i gangsters

notorius

il tesoro della sierra madre

anni difficili

monsieur verdoux

le catene della colpa

la signora di shanghai

germania anno zero

ladri di biciclette

francesco giullare di dio

fiume rosso

scarpette rosse

la terra trema

giorno di festa

la furia umana

il terzo uomo

eva contro eva

rashomon

i figli della violenza

la ronda

viale del tramonto

stromboli



jean-luc godard

claude brasseur anna karina sami frey

bande à part

 

 

1951-1960

la cosa da un altro mondo

bellissima

diario di un curato 
di campagna

un tram che si chiama desiderio

miracolo a milano

la regina d'africa

mezzogiorno di fuoco

cantando sotto la pioggia

luci della ribalta

umberto d

le vacanze del signor hulot

i racconti della luna pallida d'agosto

monica e il desiderio

lo sperone nudo

viaggio a tokyo

i vitelloni

bob il giocatore

il bacio dell'assassino

il salario della paura

è nata una stella

la finestra sul cortile

i sette samurai

il mostro della laguna nera

il lamento del sentiero

i diabolici

rapina a mano armata

johnny guitar

la strada

magnifica ossessione

notte e nebbia

fronte del porto

un condannato a morte 
è fuggito

quando la moglie è in vacanza

gioventù bruciata

l'uomo dal braccio d'oro

sorrisi di una notte d'estate

la sfida

marty

lola montès

la morte corre sul fiume

un bacio e una pistola

secondo amore

rififi

la valle dell'eden

come le foglie al vento

il pianeta proibito

l'invasione degli ultracorpi

il gigante

il settimo sigillo

il trapezio della vita

sentieri selvaggi

ascensore per il patibolo

la parola ai giurati

radiazioni bx

il posto delle fragole

orizzonti di gloria

cenere e diamanti

cairo station

l'infernale quinlan

la sala della musica

lo specchio della vita

la donna che visse due volte

dracula il vampiro

i 400 colpi

diario di un ladro

la leggenda di narayama

hiroshima mon amour

a qualcuno piace caldo

ricorda con rabbia

gli spostati

zazie nel metrò

la fontana della vergine

la dolce vita

l'avventura

psycho

rocco e i suoi fratelli

spartacus

come in uno specchio

tirate sul pianista

il buco

l'appartamento

l'occhio che uccide

occhi senza volto

sabato sera 
domenica mattina



jean-luc godard

jean-paul belmondo

il bandito delle 11

1961-1970

una vita difficile

colazione da tiffany

lo spaccone

jules e jim

l'anno scorso a marienbad

viridiana

la jetée

mamma roma

la notte

sussurri e grida

il sorpasso

accattone
 

il buio oltre la siepe

8 1/2

che fine ha fatto baby jane?

la comare secca

alice nelle città

la passeggera

la visita

i giorni contati

l'uomo che uccise liberty valance

l'eclisse

l'angelo sterminatore

le mani sulla città

il processo

il giovedì

il vangelo secondo matteo

il promontorio della paura

lolita

io la conoscevo bene

lo spione

il silenzio

gli uccelli

tom jones

il dottor stranamore

diario di una cameriera

il gattopardo

benvenuti ovvero vietato l'ingresso agli estranei

les parapluie de cherbourg

il bacio nudo

per un pugno di dollari

la pantera rosa

tutte le ore feriscono
l'ultima uccide

l'uomo del banco dei pegni

darling

cronaca di anna magdalena bach

deserto rosso

repulsion

alphaville

il bandito delle 11

chelsea girls

persona

uccellacci e uccellini

blow-up

au hasard balthazar

chi ha paura di 
virginia woolf?

andrej rublëv

morgan matto da legare

la donna scimmia

i pugni in tasca

edipo re

bella di giorno

la battaglia di algeri

mouchette

bonnie&clyde

frank costello 
faccia d'angelo

il laureato

a sangue freddo

play time

teorema

2001 
odissea nello spazio

la notte dei morti viventi

stephane una moglie infedele

rosemary's baby

butch cassidy

non si uccidono così neanche i cavalli

zabriskie point

easy rider

un uomo da marciapiede

il mucchio selvaggio

medea

così bella così dolce

dillinger è morto

piccolo grande uomo

porcile

il tagliagole

morte a venezia

indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto

ostia



jean-luc godard

michel piccoli brigitte bardot 
jack palance giorgia moll

il disprezzo

1971-1980

le chat
 

la ragazza del bagno pubblico

punto zero

ludwig 
requiem per un re vergine

cane di paglia

una squillo per l'ispettore klute

ispettore callaghan

la classe operaia 
va in paradiso

arancia meccanica

il braccio violento 
della legge

lo scopone scientifico
 

roma

harold e maude

l'ultimo spettacolo

le lacrime amare 
di petra von kant

un tranquillo 
week end di paura

cabaret

il padrino

40.000 dollari 
per non morire

mean streets

notte sulla città

il fascino discreto 
della borghesia

solaris

ultimo tango a parigi

la rabbia giovane

mosè e aronne

effetto notte

pat garrett e billy the kid

l'esorcista

il padrino II

una moglie

professione reporter

la paura mangia l'anima

martha

voglio la testa di garcia

la conversazione

lo squalo

qualcuno volò sul nido del cuculo

nashville

lancillotto e ginevra
 

jeanne dielman, 23, 
quai du commerce 1080 bruxelles

hitler 
un film dalla germania

taxi driver

barry lyndon

quel pomeriggio 
di un giorno da cani

il diavolo probabilmente

un anno con tredici lune

il matrimonio di 
maria braun

i tre giorni del condor

c'eravamo tanto amati

the rocky horror 
picture show

novecento

carrie

tutti gli uomini 
del presidente

l'impero dei sensi

l'amico americano

quell'oscuro oggetto del desiderio

eraserhead

casotto

driver

il cacciatore

i giorni del cielo

nosferatu

manhattan

alien

apocalypse now

oltre il giardino

the elephant man

vestito per uccidere

gloria

toro scatenato

i cancelli del cielo

the blues brothers

kagemucha

atlantic city

shining



jean-luc godard

macha méril philippe le roy

una donna sposata

 

 

1981-1990

possession

1997 fuga da new york

lola

fitzcarraldo

brivido caldo

colpo di spugna

blow out

fanny e alexander

e.t.

parsifal

scarface

veronika voss

querelle

blade runner

i misteri del giardino 
di compton house

c'era una volta in america

amore tossico

nostalghia

l'argent

paris, texas

sangue facile

maria's lovers

brazil

omicidio a luci rosse

va' e vedi

vivere e morire a l.a.

la mosca

velluto blu

l'onore dei prizzi

pentimento

ran

my beautiful laundrette

gli intoccabili

platoon

il raggio verde

down by love

full metal jacket

l'insostenibile 
leggerezza dell'essere

la casa dei giochi

wall street

l'uomo della pioggia

inseparabili

l'attimo fuggente

batman 

chi ha incastrato roger rabbit

le relazioni pericolose

sesso bugie e videotape

il tempo dei gitani

harry ti presento 
sally

il mio piede sinistro

balla coi lupi

ho affittato un killer

cuore selvaggio

edward mani di forbice

bullet in the head

quei bravi ragazzi

decalogo 1-10

5- non uccidere

rischiose abitudini

il cuoco il ladro 
sua moglie e l'amante



jean-luc godard

jean-pierre léaud isabelle duport

maschile e femminile

 

 

1991-1999

malina

king of new york

henry pioggia di sangue

non sento più la chitarra

edoardo II

il padrino III

la bella scontrosa

un cuore in inverno

blue

le jene

il cattivo tenente

mr. butterfly

carlito's way

film blu

carne
 

lanterne rosse

gli spietati

wittgenstein

addio mia concubina

ed wood

satantango

assassini nati

pulp fiction

via da las vegas

il buio nella mente

strange days

dead man

odio

angeli perduti

film rosso

addiction
 

underground

la commedia di dio

i racconti del cuscino

l'odore della notte
 

solo contro tutti

sicilia

rosetta

eyes wide shut



jean-luc godard

jean-pierre léaud anne wiazemsky 
juliet berto

la cinese
 

 



jean-luc godard

eddie constantine anna karina

lammy caution missione alphaville

 

 



jean-luc godard

marina vlady

due tre cose che so di lei



jean-luc godard

mireille darc anne wiazemsky

week end

 

 



jean-luc godard

anna karina michel subor

le petit soldat

 

 

 



jean-luc godard

marino masè geneviève galéa

les carabiniers



jean-luc godard

anna karina

la donna è donna 

 

 



jean-luc godard
e gruppo Dziga Vertov

cristiana tullio altan 
gian maria volontè

vento dell'est

 

 


jean-luc godard

anna karina

una storia americana

 

 

 



jean-luc godard

yves montand jeane fonda

crepa padrone, tutto va bene

 

 



jean-luc godard

héloïse godet

adieu au langage

 

 



jean-luc godard

eddie constantine claudia michelsen

germania nove zero

 

 



jean-luc godard

isabelle huppert hanna schygulla

passion

 

 



jean-luc godard

alain delon domiziana giordano

nouvelle vague

 

 



jean-luc godard

jane birkin jacques villeret

cura la tua destra

 

 



jean-luc godard

nathalie baye johnny hallyday

detective

 



jean-luc godard

il fotografo

film socialisme

 

 



jean-luc godard

myriem roussel

je vous salue, marie



jean-luc godard

maruschka detmers jacques bonnaffé

prenom carmen

 

 



jean-luc godard

cinema

histoire(s) du cinéma

...tutti dai Cahiers al giornalino del liceo si fanno questa domanda e si danno anche una risposta impossibile: quali i dieci, cento, cinquecento, mille film migliori della storia del cinema? Esistono  film perfetti ma non capolavori, altri imperfetti ma capolavori, altri ancora imperfetti e perfetti nell’imperfezione, poi film eccellenti, film impeccabili,  film esemplari, film ottimi, film sopravvalutati, film sottovalutati…quali le opere guida, maestre, apici, vertici, acme? Quelle che non sono solo film ma cinema?  La domanda è inammissibile perché il cinema ha centoventotto anni di vita, di storia,  di tecnica, di pensiero filosofico, di pubblico, di sale cinematografiche, di nuova geografia e diversa geopolitica pertanto, e per quanto sopracitato, rispetto alla diversità insita in qualsiasi pensiero diventato manufatto e con esso pellicola, inquadratura, sequenza spaziotempo e poi diversamente inquadratura, sequenza, piano sequenza spaziotempo ma digitale, allora come confrontarsi tra gli i-phone7  di Soderbergh in Unsane e i soffitti inquadrati dalla MDP di WellesTolandMankiewicz in Citizen Kane? E potrei elencare decine di raffronti, mentre i film che ho amati, i registi che ho studiati sono tutti presenti in questa mia personale storia del cinema percorribile nel sito in una suddivisione per decenni fino al nuovo secolo (non ancora ultimata). Però pur credendo risolutamente in  quanto ho appena scritto, riguardo alla scelta da fare tra migliaia e migliaia di film visti e rivisti,  voglio darvi anche io una risposta limitandomi a ventotto di essi. Quali i migliori film della storia del cinema? Prima presenterò solo sezioni di fotogrammi in modo che potrete eventualmente riconoscerli, poi scorrendo scoprirete i titoli, le regie, la scheda tecnica  e ancor dopo perché li ho scelti...

i titoli

the zone of interest

di jonathan glazer

Nazioni UK, Polonia, USA

Anno 2023

Genere Drammatico

Durata 105’

Interpreti Christian Friedel, Sandra Hüller , Johann Karthaus, Luis Noah Witte, Nele Ahrensmeier

Sceneggiatura  Jonathan Glazer, Martin Amis

Fotografia Lukasz Zal

Montaggio Paul Watts 

Costumi Malgorzata Karpiuk 

Musica Mica Levi

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